Genitori (in crisi) e GenZ: orientare i figli nell’epoca dei social
Father and son relaxing together on dock
Genitori (in crisi) e Generazioni digitali: orientare i figli nell’epoca dei social
di LINDA DE ANGELIS*
A seguito della pubblicazione dell’articolo della scorsa settimana “Giovani e violenza: i valori nell’epoca dei social”, mi sono pervenute diverse richieste di approfondimento circa l’effettiva opportunità di trasmettere ai figli valori “sani e giusti”, in un mondo percepito prevalentemente come violento, scorretto e pericoloso, senza rischiare che ciò non contribuisca invece a renderli solo più deboli e vulnerabili.
Che senso avrebbe trasmettergli princìpi etici e morali, quando la società sembra nel suo complesso non solo non punire, ma anzi premiare, i più scaltri, i violenti, i “bulli”, i furbi, gli indifferenti? E come si può insegnare loro a vivere riuscendo contestualmente a difendersi in maniera efficace, mantenendo la rotta dei valori del rispetto di sé stessi e degli altri, della lealtà e della giustizia, navigando nelle acque piene delle insidie e dei tranelli del nostro tempo?
È una risposta difficile e complessa, perché ritengo che, come genitori, presupponga assumersi innanzitutto la responsabilità di emozioni – a volte anche estremamente spiacevoli – che spesso riguardano più noi adulti, che i nostri stessi figli. Come possiamo ad esempio orientarli, anche in considerazione della loro età, quando hanno subìto un’ingiustizia, se non siamo noi per primi sufficientemente maturi da un punto di vista emotivo e psicologico, da poterli prima di tutto contenere nella loro rabbia, delusione e/o sofferenza?
Siamo in grado di permettergli di esprimere tali emozioni senza farci travolgere dalle nostre, come spesso accade, che fanno male a noi e non servono a loro? Riusciamo a farli sentire ascoltati e compresi nei loro vissuti e nei loro ragionamenti, contemporaneamente capaci di gestire la rabbia, la paura e l’angoscia che potremmo provare noi stessi ascoltandoli, tenendo debitamente separato il nostro sentire dal loro, la nostra storia personale dalla loro vita, le dinamiche del nostro presente da quelle che vivono i nostri figli nel loro?
Oppure, senza neanche accorgercene, cambieremmo discorso perché certe emozioni sarebbero per noi insostenibili? “Soluzioneremmo” in fretta – e ahimé al loro posto! – per proteggerli da quelle stesse emozioni in cui ci fa male vederli arrancare? Tenteremmo, seppur in buona fede, di minimizzare gli accadimenti che li hanno riguardati e le relative emozioni, per ridimensionarne la sofferenza e con l’effetto – molto sottovalutato – di farli sentire a volte ancora più incompresi, non rispettati e sminuiti nel loro stesso sentire, privandoli oltretutto di fare esperienze emotive necessarie per la loro crescita? E saremmo invece capaci di fare un passo indietro, laddove il nostro intervento non fosse effettivamente necessario, rispettandoli nei loro confini e riconoscendogli il diritto di imparare a cavarsela da soli senza intrusioni?
I nostri figli molto spesso hanno solo bisogno di ascolto, un ascolto il più possibile decontaminato da tutte le nostre reazioni emotive e da tutti i nostri consigli. Essere in grado di accogliere ed ascoltare fino in fondo i dolori, le frustrazioni e il mondo interiore degli altri, tanto più se appartenenti ai propri stessi figli, è un’operazione per nulla scontata che richiede verosimilmente di essere in primis ben saldi noi, se si intende essere un riferimento affettivo e valoriale per loro, ben consapevoli che comunque resta un processo in continuo divenire.
Il percorso personale, per come lo intendo e con simili finalità, non credo si possa improvvisare: si può anche essere stati sostenuti da genitori illuminati ed evoluti, non essere stati destabilizzati da particolari traumi, essere stati insomma abbastanza fortunati, ma ritengo che essere ben agganciati a noi stessi, avere chiare le nostre emozioni e sfruttarle anziché subirle, essere davvero forti e resilienti, sia un processo personale che non possa prescindere dal guardare in faccia i propri demoni, i propri limiti e le proprie insicurezze che “tutti” abbiamo, indipendentemente da quanta fortuna abbiamo avuto nella vita.
A partire dalle sfide personali degli adulti e dall’attuale crisi dei ruoli genitoriali, ritengo che questo momento storico richieda più che mai valori di riferimento forti e centratura personale, per navigare in quella che il sociologo Z. Bauman ha definito “modernità liquida”, con ciò riferendosi agli esiti della destrutturazione della cultura, dei valori, delle norme e di ogni forma ed espressione del vivere collettivo, per l’appunto liquefatti in quel confuso mare magnum senza forma, limiti e riferimenti, che caratterizza il nostro tempo.
A mio avviso, proprio trasferire ai figli valori sani e forti è l’unica possibilità che intravedo per sostenere le sfide di questa post-modernità, insieme a quella “base sicura”, come l’ha chiamata Bowlby, per permettergli di fare esperienza di sé stessi – mentre fanno esperienza del mondo – anche quando si tratta di confrontarsi con tutte le sue brutture, sapendo di poter contare sul porto sicuro rappresentato dai propri adulti di riferimento.
Essere genitori adeguati non significa essere genitori perfetti, che esistono solo nei modelli teorici che ipotizzano “genitorialità ideali” finalizzate a supportarci nella crescita dei nostri figli. “Genitori sufficientemente buoni”, parafrasando Winnicott, sono coloro i quali donano ai propri figli quell’amore e quella sicurezza che gli consentono di orientarsi man mano che si staccano da noi, specie in quella delicata fase che prende avvio con la preadolescenza e che gli permetterà nel tempo di spiccare il loro personale volo nel mondo, come adulti liberi innanzitutto dei tanti condizionamenti nocivi e disfunzionali che vengono trasferiti per l’appunto dai social.
Sforzarsi di apparire, assecondando la cultura esasperata da questi ultimi, ha un costo elevatissimo sul nostro benessere psicologico, perché mentre mimiamo personalità e caratteristiche che non ci appartengono, così illudendoci di sentirci “OK” nel senso che gli diede Thomas Harris rispetto all’altro “non-OK”, spostiamo comunque il nostro baricentro “fuori nel mondo”, alla mercé del giudizio degli altri, anziché mantenerlo saldamente dentro noi stessi, in connessione con le nostre emozioni, i nostri valori e dunque basando la nostra vita sulla nostra natura più vera e autentica.
Con specifico riferimento al precedente articolo e al concetto di deumanizzazione come effetto della cultura della violenza veicolata dai social, ritengo siano proprio i valori e la centratura personale che possono consentirci di ostacolare la diffusione di simili veleni sociali, oltre a favorire nei nostri figli il saper discernere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, allineando le loro vite in base a tali valori.
Come già scritto, l’unica via percorribile che ad oggi intravedo, ma è chiaramente un punto di vista personale, per tenere testa alle diverse sfide cui ogni giorno siamo sottoposti noi stessi e i nostri figli, è quella di focalizzare bene chi siamo, quali siano le nostre emozioni, le nostre attitudini e i nostri obiettivi, perseguendoli con impegno e dedizione, restando fedeli a chi siamo e a cosa vogliamo.
Credo fermamente che connetterci a noi stessi significhi assumerci la responsabilità dei nostri limiti quando necessario, ma restando sempre focalizzati sulle nostre risorse, senza permettere agli altri di condizionarci o di definirci con i loro giudizi, o di autosabotarci con i nostri stessi pensieri disfunzionali o le nostre emozioni “disregolate”, con l’obiettivo di sviluppare quelle doti di resilienza tali da comprendere profondamente che “non è quello che ci capita, ma è come reagiamo a quello che ci capita” a mantenerci in piedi e al timone delle nostre esistenze, così da poterlo efficacemente insegnare ai nostri figli attraverso il nostro esempio.
*Psicologa Clinica
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