Dossier Ai

Firpo (Assonime): “Basta con l’Ue dei sussidi, lo sviluppo si fa con le imprese. Ce lo insegna l’Ira di Biden”

di Giovanni Vasso -

STEFANO FIRPO DIRETTORE GENERALE ASSONIME IL MERCATO


Stefano Firpo oggi ricopre il ruolo di direttore generale di Assonime, che riunisce le società per azioni. Economista, ha lavorato per Gruppo Intesa San Paolo e alla Bce. E’ stato capo di gabinetto del ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, Vittorio Colao ai tempi del governo Draghi. Prima ancora è stato dg per la politica industriale, la competitività e la piccola e media impresa presso il Mise. In questa veste è stato tra gli estensori del piano nazionale Industria 4.0.

Stefano Firpo, direttore generale di Assonime. Reshoring e de-globalizzazione, il mondo si sta affacciando a una nuova era?
Di sicuro le tensioni geopolitiche in atto e la pandemia hanno fatto emergere una dimensione critica della globalizzazione legata all’incertezza sulla stabilità, nel tempo e tra Paesi, delle condizioni necessarie per il mantenimento dell’ordine commerciale internazionale. Per questo sono in atto dei cambiamenti significativi nel sistema degli scambi che si era consolidato negli anni della globalizzazione. Questi cambiamenti comportano una minaccia alla crescita a causa della frammentazione degli scambi ma offrono anche delle opportunità perché spingono a riorganizzazioni produttive (reshoring, autonomia strategica e di controllo delle catene di fornitura) che rispondono a esigenze di de-risking, ossia la riduzione delle dipendenze per l’approvvigionamento energetico, per le materie prime critiche e per i semilavorati fondamentali nella transizione ecologica e digitale, fondamentali per Paesi di trasformazione come l’Italia.

Usa e Cina stanno tentando di tenere su i propri apparati produttivi. L’Ue rischia di fare la fine del vaso di coccio tra quelli di ferro?
Il rischio c’è e la risposta non può limitarsi, a livello europeo, ad un indiscriminato rilassamento delle regole che governano gli aiuti di Stato. Questa risposta ha una duplice criticità. Da un lato difficilmente i sussidi europei potranno pareggiare l’intensità dei sussidi dell’IRA statunitense. Dall’altro, liberare le mani ai singoli Stati rischia di scatenare una “corsa al sussidio” fra le due sponde dell’Atlantico, che allontanerebbe la prospettiva di un nuovo negoziato sull’accordo transatlantico di libero scambio su cui invece è importante tornare ad impegnarsi. Il rafforzamento del sistema produttivo europeo nelle produzioni e tecnologie funzionali alla doppia transizione green e digitale, come abbiamo recentemente sottolineato in un Quaderno Assonime, si realizza attuando una strategia di politica industriale europea che incentivi la cooperazione fra Stato e imprese nella realizzazione di progetti e nella produzione di beni comuni europei grazie a risorse comuni. Da questo punto di vista l’iniziativa americana della scorsa estate, l’IRA, ha bruscamente ricordato a tutta l’Europa che la sostenibilità ambientale e la trasformazione digitale si fanno con le imprese e con l’industria.

Gli investimenti Ue, per esempio sui chip, riusciranno davvero a garantire gli obiettivi ambiziosi di autonomia che Bruxelles si pone?
L’Europa con la proposta di Regolamento – il Net-Zero Industry Act – si è data obiettivi estremamente sfidanti, prevedendo il raggiungimento, entro il 2030, del 40% di capacità produttiva autonoma in 8 tecnologie ed apparati chiave per la transizione energetica, cui si sommano quelli del Digital Compass sulla produzione di semiconduttori e le reti di connettività. Rispetto a ciò, si nota una preoccupante distanza tra l’ambizione di questi obiettivi calati dall’alto e la modestia degli strumenti comuni per raggiungerli. Nella sostanza tutto lo sforzo – davvero titanico – di investimento (parliamo di centinaia di miliardi di euro fra capex e opex) e sostegno è lasciato agli Stati membri, alcuni dei quali potranno muoversi con più spazi di manovra – grazie alla diversa capacità fiscale dei singoli Paesi – per mezzo del rilassamento delle regole sugli aiuti di Stato aprendo però profonde fratture e diseguaglianze nel mercato unico. Questo approccio va corretto. Pensiamo che l’Italia possa farsi promotrice di una proposta per potenziare una strumentazione davvero comune per raggiungere gli obiettivi europei di politica industriale. Un primo strumento da potenziare sono, a nostro avviso, gli IPCEI, ossia gli importanti progetti di comune interesse europeo, che sono stati fruttuosamente utilizzati per stimolare significativi investimenti privati nel campo dei semiconduttori, delle batterie e dell’idrogeno.

Perché è importante la sostenibilità ambientale e la svolta green? Solo una questione ecologica o un obiettivo strategico?
Si tratta senza dubbio di un obiettivo strategico perché, attraverso la transizione ecologica, si può riformare il sistema produttivo migliorando l’efficienza e rafforzando la competitività attraverso innovazioni di prodotto e di servizio e intercettando una crescente domanda di consumo responsabile. Proprio da questa prospettiva si muove l’IRA americano che, nonostante il nome, ha come obiettivo principale il rafforzamento – con ben 400 miliardi di dollari di incentivi – del sistema industriale americano nei settori strategici delle energie rinnovabili e della transizione ambientale. Oltre alla significatività degli aiuti resi disponibili, del piano IRA bisogna sottolineare il cambio di prospettiva: incentivare l’industria per decarbonizzare! Gli oneri di compliance e gli investimenti necessari alla transizione ecologica sono molto significativi e ricadono prevalentemente sulle imprese, in particolare sull’industria manifatturiera. Per evitare effetti negativi sul sistema produttivo ci vuole una politica industriale europea dotata di strumenti comuni di cui ho appena parlato.

Quali prospettivi ci sono per l’Italia? Come sta andando la transizione green e digitale nel nostro Paese?
Sfortunatamente lo shock inflattivo in atto ha provocato un brusco e rapido rialzo dei tassi di interesse che sta provocando serie difficoltà a famiglie e imprese. Questo shock non può essere compensato né con aumenti salariali slegati dagli incrementi di produttività, né con un sistematico aumento della spesa pubblica per controbilanciare la perdita di potere d’acquisto.
La risposta più efficace per il sostegno alla crescita dell’economia italiana può venire solo da una convinta agenda di riforme strutturali: semplificazioni, liberalizzazioni, riduzione del red tape regolatorio. Evitando di accrescere la spesa pubblica, l’Italia deve concentrarsi nello “scaricare a terra” tutto il potenziale di contributo alla crescita del PNRR, accelerando la spesa e la realizzazione di opere e servizi pubblici da qui al 2026. Come sappiamo una considerevole porzione del nostro PNRR è proprio dedicata alla transizione ambientale e digitale. In più con le nuove risorse di RePower EU si potrà ulteriormente rimodulare e potenziare il PNRR proprio sugli investimenti green dove già oggi l’Italia esprime capacità tecnologica e produttiva.


Torna alle notizie in home