Attualità

Filippo Turetta e la violenza di genere “identitaria”

di Francesco Da Riva Grechi -


Fedeli alla vocazione di questa testata, si prova ad analizzare, da un punto di vista “identitario”, il caso dell’omicidio di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta, adesso che si sono spenti i riflettori sulla Corte d’Assise di Venezia ed è stato possibile leggere il verdetto di condanna all’ergastolo, avendo però la sentenza riconosciuto solo le aggravanti della premeditazione, del sequestro di persona e dell’occultamento di cadavere, e non anche quelle dello stalking (cc.dd. atti persecutori) e della crudeltà. Vista la narrazione dei fatti, ampiamente nota, è abbastanza sconcertante. Nelle loro valutazioni il giudice penale e la giuria popolare si avvalgono della tecnica delle circostanze per graduare l’entità della pena da attribuire al colpevole in relazione alla gravità e al disvalore dell’azione criminosa. Peggio di come si è comportato Filippo Turetta è difficile anche solo immaginare eppure la sentenza è stata particolarmente “benevola” in relazione alla sua inevitabile condanna all’ergastolo. La Corte sostanzialmente si è preoccupata di lasciare aperta al condannato la possibilità di accedere alla liberazione condizionale una volta maturati i presupposti soggettivi ed aver scontato almeno 26 anni di reclusione. Dunque a Turetta è andata “particolarmente bene”. È giusto? Secondo chi scrive no ed il messaggio che ha dato la Corte è pessimo come da reazione della sorella della vittima, Elena Cecchettin. Non tanto per il dubbio riferimento ad un concetto fumoso come quello di patriarcato quanto perché la Corte e la giuria popolare non hanno voluto leggere l’infame omicidio per quello che effettivamente è stato: un’esplosione di violenza immane da condannare con il massimo della pena e non, volutamente sbagliando, con il minimo. Il giudizio evidentemente non ha tenuto conto di quello che può essere stato il dolore della vittima durante il suo sequestro e l’agonia per le ferite inferte e quindi ne è nata una decisone miope come sempre influenzata vigliaccamente dalla pressione mediatica. Non aver considerato la vittima è infatti l’unica spiegazione al trattamento favorevole riservato all’aggressore. Come se costui agisse contro una vittima immaginaria e non con folle crudeltà contro Giulia Cecchettin, che stava perseguitando da anni. Dal punto di vista giuridico, il tragico paradosso, è che lo stesso codice penale prescriverebbe di non porre a carico dell’agente le circostanze aggravanti, in caso di errore sulla persona offesa dal reato. Ma Turetta aveva addirittura confessato la premeditazione che in effetti era evidente e dunque voleva a tutti i costi riappropriarsi di Giulia fino ad esplodere con una ferocia mai vista. E se pure è vero che certe fattispecie penalistiche affondano nella cultura patriarcale è altrettanto vero che la Corte Costituzionale le ha spazzate via da tempo alla luce del dettato della Costituzione ed il punto non è questo. Il problema è una incultura che minimizza e quindi giustifica brutali assassini in nome dell’identità maschile che deve sopravvivere ad un mondo che cambia. Ma non è questo il modo. Se anche le donne non parlano più il linguaggio degli uomini non per questo si può tollerare la violenza che anzi deve essere prevenuta proprio accertando per tempo gli atti persecutori che, guarda caso, costituiscono lo stalking.


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