Fast fashion, quella moda fra inquinamento e sfruttamento
epa10887454 Artist Jeremy Hutchison, wearing a 'fast-fashion zombie' costume made of used garments from second-hand clothing markets in West Africa, walks inside a clothing shop during the British Textile Biennial in Blackburn, Britain, 28 September 2023. The third edition of the British Textile Biennial highlights creative works in textiles against the backdrop of the former cotton powerhouse of Lancashire. EPA/ADAM VAUGHAN
Fast fashion, moda veloce. Quella “moda” (non me ne vogliano i puristi dei tagli sartoriali, delle passerelle e della famiglia Venturini Fendi) in cui dall’ideazione alla vendita trascorrono 15 giorni scarsi. La moda intesa come produzione che deve durare una stagione, che costa molto poco.
Una moda facilmente reperibile, sostituibile, che stimola nella mente del consumatore – perché di consumo si tratta – la sensazione di poter cambiare spesso, variare il proprio stile spendendo poco e guadagnandoci in ricambio e quantità.
Stiamo parlando del modello di business più controverso possibile, l’abbigliamento usa e getta. Abiti venduti, acquistati e resi più di una volta, che girano il mondo, dalla Cina all’Europa, accatastati in pacchi. Un modello di business che si basa su produzioni low cost e su spedizioni e resi gratuiti.
La Fast Fashion contribuisce all’inquinamento ambientale causato dall’industria tessile, rendendo questa industria la seconda più inquinante al mondo, nonché tra le prime per consumo energetico e risorse naturali.
Tuttavia, l’inquinamento è solo uno dei problemi legati alla Fast Fashion: nel cocktail c’è anche una buona dose di sfruttamento, discriminazione, schiavitù coloniale, lavoro minorile.
Per soddisfare le esigenze di questo modello produttivo fagocitante, e aumentare i guadagni, le tendenze cambiano in fretta così come anche gli articoli nelle vetrine o sugli scaffali. Siccome il centro di questo meccanismo ben oleato sono i prezzi ridotti, la qualità, inutile dirlo, ci rimette: vengono per lo più utilizzati tessuti sintetici talmente leggeri da strapparsi dopo pochi lavaggi con cuciture precarie e rifiniture inesistenti. Greenpeace Italia (in collaborazione con Report che ha dedicato alla delicata tematica la puntata dello scorso 11 febbraio) ha pubblicato un rapporto dal titolo “Moda in viaggio. Il costo nascosto dei resi online: i mille giri del fast-fashion che inquina il pianeta”.
Dopo aver acquistato 24 capi d’abbigliamento dalle principali piattaforme e-commerce (Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, OVS, Shein e ASOS) sono stati nascosti in ogni pezzo localizzatori Gps ed è stato effettuato il reso, così da tracciare ogni spostamento. In 58 giorni, i pacchi hanno percorso circa 100 mila chilometri attraverso 13 Paesi europei e la Cina. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km.
Il camion il mezzo di trasporto più usato, seguito da aereo, furgone e nave. I 24 abiti sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte e restituiti 29.
Al momento, 14 indumenti su 24 non sono ancora stati rivenduti. Tutti i capi di Temu provenivano dalla Cina e hanno percorso oltre 10 mila chilometri.
ASOS, Zalando, H&M e Amazon sono in cima alla classifica per numero medio di rivendite: 2,25 volte.
“L’indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion (quasi sempre gratuiti per il cliente) generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti” ha dichiarato Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Greenpeace, in collaborazione con la startup Indaco2, è riuscita a calcolare anche le emissioni di anidride carbonica: lo studio ha permesso di stimare anche le emissioni prodotte dal trasporto e dal packaging dei capi d’abbigliamento. L’impatto ambientale medio del trasporto e reso di ogni ordine corrisponde a 2,78 kg di Co2 equivalente, emissioni su cui il packaging incide per circa il 16%.
In media inoltre, per il confezionamento di ogni pacco sono stati usati 74 g di plastica e 221 g di cartone. Se si prende ad esempio il giro compiuto da un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e rimandato indietro comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di Co2. Non solo. Il costo medio del carburante per il trasporto, è stimato in 0,87 euro. L’indagine è davvero efficace per rendersi conto dell’impatto sull’ecosistema e i risvolti problematici di questa grande caratteristica produttiva del nostro tempo.
Torna alle notizie in home