Attualità

Euroattacco: addio spighe di grano

di Eleonora Ciaffoloni -

CAMPO GRANO TRATTORE COLTIVAZIONE CONTADINO


Il panorama delle grandi pianure italiane sta per cambiare: dimenticatevi (almeno per un anno) la distesa di spighe di grano del Tavoliere delle Puglie o i campi di mais della Pianura Padana, perché dovranno essere messi in stand by. Non si tratta di una scelta di mercato, anzi.
Una decisione arriva da Bruxelles e prevede l’addio alla monosuccessione delle culture stabilita dalla nuova Pac (la Politica agricola comune) dell’Unione Europea. Si tratta, in pratica, di un obbligo di rotazione delle colture in nome della tutela ambientale e della sostenibilità: e così per un anno il grano e il mais, coltivati da sempre e in maniera continua nel nostro Paese rappresentando coltura caratterizzante di tutte le Regioni, dovranno essere sostituiti da un’altra tipologia di coltura. Un cambiamento fatto “in nome della biodiversità”: perché produrre e coltivare sempre la stessa tipologia di prodotto andrebbe a minacciare la biodiversità (appunto) e a depauperare il terreno che rischia di essere meno performante per la crescita delle prodizioni e più bisognoso di cure. Una svolta epocale non solo dal punto di vista della tradizione e della visione dell’agricoltura del Belpaese, ma anche dal punto di vista strettamente economico e amministrativo. Far cessare “improvvisamente” una produzione che da decenni tiene in piedi conti e imprese agricole, potrebbe mettere in ginocchio una intera filiera.
La prima conseguenza si trasforma in un quesito: cosa coltivare al posto del grano e del mais? Domanda lecita perché non solo il mais – indispensabile per la produzione di pasta e per la nutrizione degli animali – è insostituibile da altri tipi di produzione, ma anche perché il mercato richiede determinate quantità come materia prima sia per le industrie che per gli allevatori.

Una coltura a sostituzione di grano e mais potrebbe essere quella della soia anche se meno produttiva (anche a livello di redditività) e meno adatta all’alimentazione animale. Sarebbe proprio questa seconda filiera che andrebbe a risentirne, fino ad andare a mettere in difficoltà la produzione del latte, dei salumi e dei formaggi. Altra conseguenza è quella riconducibile direttamente al mercato in cui non cambia il rapporto tra domanda e offerta e in cui le aziende dovranno vedersela con i fornitori e con il rispetto dei contratti tra scadenze, consegne e quantità che sarebbero improvvisamente dimezzate. A raccontarlo è Vincenzo Lenucci, responsabile Area economica e Centro studi di Confagricoltura, che di fronte all’improbabile deroga alle nuove regole, vede come prima soluzione possibile quella di “dedicare metà dei terreni alla coltivazione storica il primo anno e l’altra metà spostarla al secondo anno”. Un risultato che sa di via di mezzo e con cui si andrebbe a coprire metà raccolto per ciascuno dei due anni.

Un’altra soluzione c’è, ma sembrerebbe economicamente molto di fficile da attuare, ossia non rispettare la norma imposta dalla nuova Politica agricola comunitaria. Le conseguenze, tuttavia, potrebbero essere ancora peggiori: non adempiere al provvedimento Pac significa rinunciare al pacchetto di incentivi dell’Unione europea che valgono in media dai 150 ai 200 euro a ettaro (oscillando a seconda delle colture e del territorio). Degli aiuti economici che ormai a partire dal 1995 hanno sostenuto molte aziende e che sono diventati indispesnabili alla sopravvivenza delle stesse. A peggiorare la situazione – soprattutto al Sud – vi è il clima arido che rende quella del grano duro l’unica opzione sensata come coltivazione in quelle terre.
Da un lato l’assenza di alternative, dall’altro la rinuncia agli incentivi comunitari: le aziende agricole che si trovano a un bivio. Sperare nel raccolto e voltare le spalle a Bruxelles o abbandonare i campi?


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