Cronaca

Ergastolo “inumano” e vittime “beffate”: c’è la giustizia equa?

di Ivano Tolettini -


Se la giustizia indica il grado di civiltà di uno Stato (di diritto), è quasi inevitabile che si parta dall’entità e dall’effettività delle pene ogni volta che si argomenta dei delitti e si gradui la sanzione alla gravità del misfatto. Cosicché se la tua giustizia non è la mia, si comprende il disappunto di Irma Rizzo, madre di Noemi Durini, assassinata 17enne dal fidanzato Lucio Marzo sette anni fa, che scandalizzata afferma che grazie ai permessi premio il killer della sua figliola è periodicamente fuori e conduce un’esistenza quasi normale. “È una beffa e il fallimento dello Stato”, attacca chiedendo lumi al Guardasigilli Nordio. Tre giorni fa in sede di arringa nel processo contro Filippo Turetta, per il quale la pubblica accusa ha chiesto l’ergastolo visto che Giulia Cecchettin (nella foto) è stata uccisa “con premeditazione e crudeltà”, il difensore, prof. Giovanni Caruso, ordinario di diritto penale all’Università di Padova, ha parlato dell’ergastolo come di pena “inumana”. Nell’esercitare il sacrosanto diritto alla difesa, il penalista ha però colpito la sensibilità e i sentimenti dei congiunti di Giulia, tanto che a stretto giro di intervista lo zio Andrea della ragazza, gli ha replicato: “Inumana è soltanto la violenza con cui l’imputato ha assassinato la nostra Giulia”. Già, come non convenire con quest’ultima affermazione? La questione di fondo, dunque, è il valore che assegniamo alla parola giustizia. Tutti sappiamo che la Costituzione della Repubblica, in vigore dal 1948, all’articolo 27 recita che “la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato”. Venticinque anni dopo, nel 1973, la Corte Costituzionale ribadì la finalità rieducativa della pena e previde la possibilità per l’ergastolano di beneficiare della libertà condizionale, in teoria dopo avere scontato 26 anni di carcere, ma già dopo dieci anni è possibile avere permessi premio di 15 giorni per “coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro” per un massimo di 45 giorni all’anno. C’è poi la concessione della semilibertà dopo avere scontato vent’anni. In realtà l’evoluzione delle norme, votate in Parlamento, ha disciplinato nel tempo il compito del magistrato di sorveglianza che è competente dell’esecuzione della pena del detenuto. Non sfugge che il problema di fondo, non solo sul pianeta giustizia ma in ogni ambito delle umane valutazioni, è il punto di vista dell’osservatore. Vale per la fisica (classica e quantistica), vale per le condanne. “L’ergastolo – dice nell’arringa il prof. Caruso come fosse davanti ai suoi studenti – è una pena inumana e degradante”. Poi prosegue vestendo la toga del difensore: “È un tributo all’ideologia della pena vendicativa, di chi vuole buttare la chiave per Turetta”. Ma egli sa che non è così, perché il “fine pena mai” o il “buttare la chiave” esiste in altri ordinamenti giudiziari occidentali (gli Stati Uniti ad esempio), ma non in Italia dove spesso succede che gli ergastolani dopo una quindicina d’anni possano incontrare i parenti delle vittime. La pena perpetua in Italia non esiste. Caso mai, secondo molti osservatori, ma lo prevedono le leggi che i magistrati di sorveglianza applicano, la semilibertà per i detenuti definitivi è un premio generoso per chi ad esempio si è macchiato di delitti efferati, come l’uccisione di Giulia. Ricapitolando, se è umano lo sfogo di Gino Cecchettin che dice che le parole della difesa hanno umiliato la memoria di Giulia, è altrettanto comprensibile che i difensori dell’imputato osservino che “siamo certi di non avere travalicato in alcun modo i limiti delle continenza espressiva e di non avere mancato di rispetto a nessuno, abbiamo solo svolto il nostro lavoro in uno stato di diritto”. Del resto, il diritto può essere duro e il processo è il luogo giuridico in cui si esplica la dialettica tra le parti in campo, e l’avvocato difensore al proprio assistito cerca di far evitare la pena più alta. E a proposito del punto di osservazione da cui si guarda il processo, la mamma di Noemi Durini incalza che “l’ergastolo dovrebbe essere la norma per reati efferati come l’omicidio”. E chiede al ministro Nordio che “non ci siano più permessi premio per chi ha tolto la vita. Mi batto per una vera e giusta giustizia”. Ma che cosa sono una vera e giusta giustizia? La Costituzione indica la finalità rieducativa della pena, anche per l’ergastolano, attraverso una liberazione condizionale come “temporanea e finale messa alla prova”, sospendendo la restante parte della pena da scontare. Difficile da accettare per i parenti delle vittime.


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