Elezioni, impariamo dalla Spagna: i risultati in poche ore
Alle dieci di domenica sera già si sapeva l’esito delle elezioni in Spagna. Nessuno ha vinto sul serio, qualcuno ha perso più degli altri. La lettura politica del voto spagnolo è, come ogni fatto politico, legato alle appartenenze, alle simpatie, alle fazioni. C’è una cosa, però, che al di là di destra e sinistra va immediatamente (e pacificamente) riscontrata: domenica sera in Spagna, l’affluenza alle urne è stata più alta che nel settembre ’22 da noi. Che, pur di arrotondare le percentuali, abbiamo lasciato i seggi aperti pure nella mattinata di lunedì. I numeri parlano chiaro: gli elettori iberici che hanno esercitato il loro diritto-dovere sono stati il 68,49% del totale. In aumento, rispetto alle votazioni del 2019, del 2,26%. In Italia, nel 2022, si sono recati alle urne il 63,8% degli aventi diritto. Nonostante avessero a disposizione una mezza giornata in più e, soprattutto, nonostante una martellante campagna di informazione e sensibilizzazione, passata ovunque, dai giornali fino ai social passando ovviamente per la televisione.
Ma i dati spagnoli vanno letti nel loro insieme. L’astensione può essere una precisa scelta politica. In Italia, è stata agitata da invisibili gruppuscoli anti-sistema che, sapendo di scommettere sull’unica schedina potenzialmente vincente, hanno tentato di intestarsi una “vittoria”. Dovuta, in realtà, all’indifferenza verso un sistema parlamentare che, negli ultimi tempi, aveva visto governi di coalizione e tecnici di sicuro non sostenuto da maggioranze espresse dal voto. In Spagna, o meglio in Catalogna, l’astensione è stata una scelta, una “chiamata alle armi” del movimento indipendentista catalano. Che ha pagato: a Barcellona e dintorni, l’affluenza è risultata inferiore dell’11% rispetto al 2019. A farne le spese è stato il presidente uscente, il socialista Pedro Sanchez, che confidava nell’elettorato storicamente socialista dell’area catalana. Al di là delle dinamiche elettorali, i conti sull’affluenza sono presto fatti. La Spagna ci sovrasta di cinque punti percentuali e il divario, considerando il caso Catalogna, poteva essere anche più ampio. Eppure anche il Paese iberico, per un attimo, ha temuto la dèbacle della democrazia. Alle 18, infatti, il dato era fermo al 53% (-4% rispetto al 2019). Poi l’accelerata finale.
Il risultato delle elezioni in Spagna è stato un pareggio. Anzi, uno stallo. L’ipotesi è che si possa, addirittura, tornare alle urne. A strettissimo giro. Se non si riuscirà a trovare una sintesi parlamentare che possa esprimere una maggioranza da 176 seggi. Per il momento, non ci arriva nessuno. Né i Popolari, neanche con Vox. E nemmeno i Socialisti che, con Sumar che recupera e gli indipendentisti catalani in caduta libera. Se si dovesse tornare al voto, con ogni probabilità, l’affluenza sarebbe ancora maggiore. Ma tutti ci provano. E se nessuno dovesse riuscirci, il re Filippo VI potrebbe riconvocare le elezioni. Di sicuro non si sente nemmeno da lontano l’eccezione, che in Italia è diventata l’unica regola, di fare un governo tecnico magari pescando l’economista nazionale più forte e rappresentativo (non della politica ma di altri equilibri, ça va sans dire) che c’è. La differenza tra Spagna e Italia è, per ora, questa. Ed è forse in ciò che si spiega la ragione per cui gli spagnoli, a differenza degli italiani, a votare ci vanno ancora: la politica c’è ancora e non fa la corsa a barattare ogni responsabilità, che sia di governo o di opposizione, ai “tecnici”.
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