I FIGLI RICOSTITUENTI
Se i padri costituenti sono ancora oggi, fin troppo, patrimonio comune del Paese, i figli ricostituenti hanno fallito tutte le prove. Il caso più eclatante fu la caduta di Matteo Renzi, che dovette dimettersi da premier dopo il fallimento di un referendum che in punta di Costituzione non c’entrava un fico secco con il suo mandato alla guida del governo e con la tenuta della sua maggioranza. E qui sta il problema che oggi decide di sfidare il governo di Giorgia Meloni. Mettere le mani sulla Costituzione, immaginare una nuova forma di governo, imboccare la via dell’elezione diretta che ha funzionato molto bene per le città e per le regioni non solo non è una bestemmia antidemocratica, ma è previsto proprio dal dettato della Carta scritta dai padri costituenti che tanto osanniamo. Ci hanno detto come fare e con quali maggioranze intervenire per adeguare la Carta su cui si fonda l’Italia repubblicana alle mutazioni storiche e culturali che ogni Paese vive. Il motivo per cui questo dettame resta sulla carta è che manca ormai da troppi anni in Italia lo spirito nazionale di unità sostanziale, che è il presupposto stesso di ogni mutazione che riguardi la comunità democratica nel suo insieme. E dal punto di vista logico verrebbe pure da dire che è meglio così, cioè che l’Italia preferisce restare ferma piuttosto che tentare di cambiare qualcosa di così importante senza avere l’animo sereno di un Paese capace di guardarsi dentro e di aprire un dibattito politico profondo per tentare un passo avanti tutti insieme. C’è però un rovescio della medaglia. Con la scusa della dialettica politica che ormai si è trasformata in odio e violenza, noi rischiamo che per non toccare ciò che è sacro con le mani sporche anziché lavarcele finiremo per far diventare pagano ciò che un tempo creava quello Spirito di Santità Laica, tanto per citare Silvio Berlusconi, che sta alla base di ogni grande passaggio politico di una democrazia compiuta. Per farla semplice la domanda è questa: se non siamo in grado di affrontare una riforma costituzionale, significa che siamo una democrazia prudente o una democrazia morente? Significa che abbiamo anticorpi che schivano i pericoli o che abbiamo perso la capacità riformatrice che ci dovrebbe venire direttamente dalla Costituzione che tanto amiamo? Siamo sani o malati di democrazia? A giudicare da ciò che è avvenuto in altre parti del mondo, democratiche tanto e più di noi, la risposta che verrebbe da pronunciare è che siamo più malati che sani. E questa è la vera questione sul campo. Perché in assenza di un bipolarismo chiaro, soprattutto per le divisioni sempre più profonde che caratterizzano il centro-sinistra di opposizione, potrebbe anche capitare che questa volta nel nome di vecchie ideologie, che tanto vecchie non sono, una parte di quell’area che non si sente rappresentata né dalla destra di oggi né dalla sinistra di domani possa nel nome dei valori socialisti, laici, liberali, riformisti aprire un dialogo con chi governa che invece il Pd, che ne avrebbe il dovere, fatica a fare. Non per volontà culturale ma per ragioni di pacificazione interna. Senza domandarsi cosa penserebbe il Paese di una riforma riuscita senza l’apporto del più grande partito della sinistra. E magari con l’apporto dell’unico segretario che portò quel partito oltre il 40 per cento.
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