PRIMA PAGINA – Mes-sia: Draghi, Meloni e la partita Ue dell’Italia
Mi chiamo Mario Draghi e risolvo problemi, dentro e fuori la Ue. Anzi, “il” problema. Quello che affligge l’Europa dopo una pandemia, una guerra che forse sta per finire mentre un’altra sta per iniziare. È l’altra faccia della medaglia, l’altro corno del dilemma di Bruxelles. È la parte che nessuno cita del Patto: tutti sanno che è di Stabilità, pochi ricordano che è “anche” di crescita. Per l’Ue, l’anno prossimo sarà cruciale. E non per via delle diatribe politiche, né per scoprire chi vincerà le elezioni se lo faranno i responsabili filo Bruxelles o i cattivoni sovranisti. Se l’Europa non torna a crescere nel 2024, per il Vecchio Continente si profila un futuro mesto e triste, di sudditanza, se possibile, ancora più forte e pesante di quella in cui si trova oggi.
In mezzo a questo marasma c’è l’Italia. Che una narrazione addomesticata dipinge come la solita nazioncina di scappati di casa, di gente che è malamente tollerata nel gran consesso delle civili genti d’Europa, un Paese piccolo e provinciale, di furbastri e plebei. Questo martellamento sulla necessità di adeguarsi agli standard che arrivano da Bruxelles è servito, e continua a servire, a far digerire ogni riforma, ogni cambiamento, ogni imposizione. Ogni volta che si rinfocola questo discorso, c’è qualcosa che l’Italia ha da offrire agli altri. Adesso si tratta del Mes. Il governo, che non vorrebbe, ha da ratificarlo subito. È una questione vitale per l’Ue. E, soprattutto, lo è per la Germania. Messa a dura prova dal suo stesso rigore, ancora scossa dalla crisi di Deutsche Bank in primavera e dal recentissimo crac del gigante immobiliare Signa. Palazzo Chigi dovrà cedere, prima o poi. O forse no.
Già, perché per anni abbiamo sognato che avremmo vissuto in un’Europa trasparente, una casa di vetro, dove tutte le decisioni sarebbero state chiare, nette e precise. Ci siamo ritrovati, invece, a fare i conti con l’Ue di oggi. Lenta come un bradipo, più farraginosa di un rituale bizantino, più burocratica dell’antico impero asburgico di Austria e Ungheria. A Bruxelles non si decide per alzata di mano né per voto elettronico, lo si fa come a un congresso della vecchia Democrazia Cristiana. Dove tutti contrattano tutto, negoziano fino allo spasmo, avanzano trattative finché ce n’è. La Polonia, per difendere una miniera di carbone, ha messo in dubbio la primazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, giusto per dirne una. Si capisce, allora, che anche l’Italia, prima di sospirare il sì al Mes voglia strappare quanto più possibile dagli “amorevoli” partner Ue.
Sul tavolo c’è proprio il Patto di stabilità, che Roma vorrebbe fosse anche di crescita. E magari di flessibilità, che garantisca all’Italia lo spazio sufficiente non soltanto a rientrare dal suo mostruoso debito pubblico ma anche di mettere a terra quegli investimenti che, in un’era di transizioni e cambiamenti, sono necessari per mantenere la competitività del Paese. L’Italia chiede realismo agli Huss mitteleuropei del rigore a tutti i costi. E flauta, parlando a chi ha orecchie per intendere, che Roma is too big to fail. Ma davvero. L’Italia non è la Grecia. Se sprofondiamo noi, lo fanno tutti. Pertanto, sì al Mes. A patto che non sia quello che ha consentito a qualcuno di mettere a ferro e fuoco il Paese ellenico, consegnandolo alla disperazione. Insomma, dal negoziato potrebbero venir fuori delle cose interessanti.
E che c’entra, allora, Mario Draghi? C’entra, eccome. L’incarico da consulente per la crescita della Commissione è l’asso, l’ultimo, rimasto in mano alla signora von der Leyen. SuperMario, pare, non vuole prenderne il posto. Figurarsi se vuole sostituire Charles Michel. Punta, evidentemente, a qualcosa di più. A togliersi uno sfizio, per esempio. Quello di tornare a imbracciare di nuovo il suo bazooka e di sparare addosso alla Bce che ci ha messo un fiat per dimenticarselo e, soprattutto, per azzerare tutte le sue politiche espansive. Al “Whatever it takes” di Draghi, Lagarde e soci hanno risposto col clangore dei tassi alle stelle e delle minacce a disimpegnarsi dall’acquisto di bond dei Paesi membri. Con i risultati che sono davanti agli occhi di tutti. E perciò Draghi, a questo punto, sarebbe l’alleato più prezioso. Per l’Italia, of course. E non per orgoglio paisà ma perché potrebbe inaugurare una nuova era di sviluppo, imparando da vent’anni e più di errori (dal Mes greco fino al Patto di stabilità, vecchio e nuovo) e riportare l’Europa di nuovo sulla strada dello sviluppo. L’unica possibile per non finire nell’irrilevanza.
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