Esteri

L’agonia degli ostaggi: “Mia sorella e le mie nipoti nelle mani di Hamas”

di Redazione -


di ROBERTA ANATI

In seguito all’attacco terroristico del 7 ottobre ogni cittadino israeliano ha perso un pezzo del proprio cuore. Non c’è anima nel Paese che non sia colpita dalle atrocità commesse da Hamas. Quasi tutti sono collegati a uno o più degli oltre 1500 assassinati in quel giorno buio. Per alcuni non solo è persa una parte di cuore ma anche una parte di vita, un pezzo di famiglia. Come sta capitando alla famiglia di Leeor Katz-Natanzon del kibbutz Nir Oz. Leeor ci ha raccontato la storia del giorno in cui ha perso la madre, la sorella e due nipoti.

La sorella di Leeor, Doron Katz-Asher (34) e le nipoti Raz Katz-Asher (4), Aviv Katz-Asher (2) erano arrivate al kibbutz qualche giorno prima del 7 ottobre per celebrare Sukkot – una delle principali festività ebraiche- insieme alla famiglia di Leeor, la madre Efrat Katz (69) e il suo compagno Gadi Mozes (79). Solo il destino ha salvato Leeor, che con la famiglia era andata dai parenti del marito nel centro di Israele, mentre la sorella Doron con le figlie, che sarebbero dovute partire il venerdì precedente (il 6 ottobre), avevano deciso di fermarsi un altro giorno per trascorrere più tempo con i nonni.

Sabato 7 ottobre Leeor è stata svegliata dalle notifiche della app della bacheca del kibbutz, che avvisavano che terroristi si erano infiltrati nel kibbutz. Angosciata, Leeor ha inviato un messaggio e chiamato la madre e la sorella affinché chiudessero la casa e si rifugiassero nel bunker. Sono rimaste in costante comunicazione, fino a che Leeor apprende che i terroristi sono entrati in casa, mentre la madre, la sorella e le nipoti, sono nel bunker. A quel punto, a Leeor non restava altro che sperare e pregare per la sicurezza della sua famiglia.

Con il passare del tempo e in assenza di altri messaggi, Leeor ha cercato per ore, disperatamente, di chiamare la madre e la sorella; senza risposta. Solo nel pomeriggio, il marito di Doron, Yoni Asher, ha riferito a Leeor di aver rintracciato il telefono di Doron a Khan Younis, la città di Gaza più vicina al kibbutz. In seguito hanno trovato sui social un video che dimostra inequivocabilmente che la donna e le due bambine di 2 e 4 anni sono ostaggi a Gaza.

Pochi giorni dopo Leeor riceve la conferma che la madre è stata uccisa durante il tragitto verso Gaza, mentre la sorella e le nipoti sono tenute in ostaggio da Hamas. Da allora non ci sono più state informazioni. Doron, Raz e Aviv sono ancora prigionieri, senza alcuna indicazione circa il loro stato di salute. Una storia straziante oltre che angosciante, ma lo sono ancora di più l’accoglienza affettuosa e il sorriso di Leeor, con il suo sguardo così colmo di infinito dolore; un dolore che, ci confida, non potrà mai passare. 

Una famiglia distrutta: non torneranno mai più nella loro casa ormai distrutta, non gli è rimasto niente, gli amici sono morti, quelli dei bambini trucidati. Senza più vestiti, né lavoro; più nulla se non la solidarietà del popolo israeliano che li ha accolti in un abbraccio continuo, empatico, sincero. Con l’idea di iniziare a pensare di ricostruirsi una vita hanno addirittura aperto una loro piccola fondazione per ricevere aiuti. 

Ma come ricostruire una vita se non si conosce la sorte di una sorella e delle figlie? Come affrontare ogni giorno un nuovo giorno, come spiegare alla sua bambina che cammina con lei nella marcia verso Gerusalemme per chiedere la liberazione degli ostaggi, che forse non le rivedrà più? E il non detto? Quello che vedo nelle sue lacrime… Cosa avranno subito sua sorella e le bambine?

Nello sgomento e nel dolore il marito di Leeor mi dice: “il mondo deve capire che eliminando Hamas, il terrorismo, non solo libereremo i nostri figli ma tutti i bambini palestinesi”. Il suo era un kibbutz pacifista, un kibbutz impegnato ad aiutare gli abitanti di Gaza. Oggi non esiste più.

È stato commesso un crimine contro l’umanità e contro la Convenzione di Ginevra. Ricordiamolo.
Al termine della nostra conversazione i nostri sguardi si sono incontrati con ancora più intensità e l’abbraccio che ne è seguito ha un valore fortemente simbolico. Le nostre anime si sono unite, così come il nostro dolore. In un’unica speranza e preghiera: che tutti gli ostaggi vengano liberati.  


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