Storie

The Poor Boys, c’erano una volta i Detroit Pistons

di Giovanni Vasso -

epa11036675 Atlanta Hawks guard Trae Young (R) is fouled by Detroit Pistons guard Jaden Ivey (L) during the second half of the NBA basketball game between the Detroit Pistons and the Atlanta Hawks in Atlanta, Georgia, USA, 18 December 2023. EPA/ERIK S. LESSER SHUTTERSTOCK OUT


C’erano una volta i Detroit Pistons. Erano i “bad boys”, i ragazzacci del basket Nba. Gente rude, come Bill Laimbeer, forse il centro più cattivo che abbia mai calcato i parquet americani. Gente folle, come Dennis Rodman, e per tipi come lui vale la regola aurea di Nonno Banfi: una parola è troppa e due sono poche. Gente dotata di un talento tanto cristallino da far rabbia persino agli dèi, come Isaiah Thomas. Gente forte, fortissima come Joe Dumars. O come Mark Aguirre. Una dinastia vera. Che portò alla Motown due, dicesi due, anelli. E lo fece nell’era di Larry Bird, Magic Johnson e di Michael Jordan. Erano i “bad boys”, appunto. Dopo di loro, un altro anello, il terzo, conquistato nel 2004. Sembrava potesse essere l’inizio di qualcosa. Lo è stato, certo. Ma della fine.

Oggi i Detroit Pistons entrano nella storia dell’Nba per la serie peggiore di sconfitte consecutive mai incassate da un roster. Con quella rimediata contro i Nets, le partite perse sono diventate ventisette. Di fila. Dall’inizio del campionato. Mai una gioia. Mai così in basso. Nessuno, prima, peggio di loro. Altro che bad boys, oggi a Detroit giocano i Poor Boys. Non basta il talento di Cade Cunningham. I Pistons sono precipitati e sarà davvero difficile dare una sterzata.

Tom Gores, proprietario della franchigia, ha suonato la carica. È stato ferocemente contestato dai tifosi. Che, lentamente ma inesorabilmente, stanno abbandonando la squadra. Invece che i Pistons, oggi seguono i Lions nel football o i Tigers del baseball. Quando s’è insediato al timone del roster, nel 2015, Gores aveva promesso che, in pochi anni, Detroit sarebbe ritornata al centro della scena cestistica Usa. In fondo, ha mantenuto quella promessa. Ma, di certo, non nella maniera, e coi risultati, che speravano i tifosi. Per il proprietario dei Pistons, però, non è il momento di fare muro contro muro. “Abbiamo una città incredibile che ci sostiene ancora”, ha detto in un’intervista rilasciata a Yahoo, “e so che alcuni di loro sono arrabbiati con me, lo capisco e non li biasimo”. Ci mancherebbe pure. Intanto ha promesso una rivoluzione: “Qualcosa cambierà”. Il primo a pagare potrebbe essere il dg Troy Weavers. Chissà.  Quel che è certo è che i Pistons non sono, oggi, così diversi dalla città che rappresentano, Detroit.

L’eterna crisi della Motown è innegabile. Ogni volta che prova a rialzarsi, Detroit deve fare i conti con la realtà. Che non racconta né favole né promesse elettorali, non crede alle promesse di Renaissance e non fa nulla per nascondersi. La città, che vive un declino infinito, non s’è mai ripresa sul serio. Non lo ha mai fatto così come i suoi abitanti sognavano di farlo, ormai dagli anni ’90 fino a oggi. Non può essere un caso, quindi, se Detroit è tornata a essere famosa nel mondo più per la serie tv de Il Banco dei Pugni che per le auto. Più per Leslie Gold che per Henry Ford, più per un banco di pegni che per i motori. C’erano una volta i Pistons. E c’era una volta Detroit.


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