Attualità

De Gennaro jr, il capo della Gdf che piace agli Usa

di Rita Cavallaro -

ANDREA DE GENNARO - GUARDIA DI FINANZA


 

Un brindisi lo hanno fatto la famiglia, un brindisi lo ha fatto il Corpo e un altro lo ha fatto più di qualcuno negli Stati Uniti. D’altronde la nomina di Andrea De Gennaro al vertice della Guardia di Finanza non è soltanto una vittoria per chi, da ormai quindici anni, aspettava un cambio di passo nelle Fiamme Gialle, ma è soprattutto una freccia in più all’arco di Giorgia Meloni, risoluta nella strategia di rinsaldare l’asse con Washington, scricchiolato a seguito di alcune nomine poco gradite oltreoceano e soprattutto dopo l’esfiltrazione di Artem Uss. Perché la figura di De Gennaro è senza macchia, del tutto antitetica rispetto ad alcune promozioni che non hanno dissipato le ombre russe, la dote peggiore da esibire di questi tempi nei rapporti con gli Usa. E il nuovo comandante della Guardia di Finanza è una boccata di ossigeno filoatlantista, alimentata dalla sua storia e dalla sua formazione, passata perfino attraverso un master internazionale per specialisti antidroga alla Dea, la Drug Enforcement Administration degli Stati Uniti, per poi continuare in una collaborazione che ha portato ad operazioni e arresti eccellenti a livello globale. Classe 1959, una moglie e tre figli, il generale di Corpo d’armata Andrea De Gennaro è un investigatore di razza, con oltre 45 anni di esperienza nelle Fiamme Gialle. Fratello di Gianni, ex capo della polizia e del Dis, Andrea ha dovuto lavorare più di altri per distinguersi in un cammino autonomo da quel cognome ingombrante. Se per la maggioranza degli ufficiali una laurea è sufficiente, il nuovo comandante ne ha prese due: una in Giurisprudenza e l’altra in Scienze della sicurezza economico finanziaria, oltre a un master di secondo livello in diritto tributario internazionale, conseguito all’Università Bocconi. Il suo primo incarico nel 1982, quando con il grado di tenente assunse la guida della sezione antidroga del Nucleo regionale di polizia tributaria di Genova, per due anni. I risultati operativi gli aprirono le porte dei più importanti comandi d’Italia: dal 1998 al 2001 fu a capo del provinciale di Bergamo, poi altri quattro anni da comandante del Nucleo regionale polizia tributaria “Toscana” di Firenze, in un crescendo che, nel 2008, gli valse la nomina al vertice del comando provinciale di Roma. De Gennaro guidò i finanzieri della Capitale per un biennio, durante il quale l’operatività sul territorio aumentò, con operazioni contro la criminalità organizzata e risultati di servizio nell’ambito dell’antidroga, che videro una raffica di sequestri all’aeroporto di Fiumicino, nel periodo caldo degli “ovulatori”, ovvero i corrieri reclutati dai narcotrafficanti per trasportare cocaina ed eroina all’interno dello stomaco, a rischio della loro stessa vita, visto che la pur minima rottura di un ovulo può portare alla morte in pochi minuti. Erano ancora ai suoi ordini i finanzieri che liberarono una bambina di quattro anni, tenuta ostaggio di una coppia di criminali in un hotel di Fiumicino, a garanzia che la giovane madre portasse a termine le consegne degli stupefacenti. E fu sempre lui a intensificare i controlli sul gioco d’azzardo, perché, disse, “quello delle slot machine è un fenomeno pericoloso, in prima battuta perché è in forte aumento la quantità di denaro giocato e poi, anche dal punto vista sociale, perché sono molte le persone che, pur utilizzando spiccioli, arrivano a spendere cifre da capogiro tanto da dovere ricorrere agli usurai”. Grande sensibilità e ottimi risultati di servizio per il curriculum del comandante, “ben voluto da tutti gli uomini di ogni reparto in cui è stato”, dice chi ha lavorato con lui in questi anni. “Però non è mai stato un uomo da scrivania”, aggiunge chi lo conosce bene. E proprio il sacro fuoco dell’operatività, piuttosto che il potere derivante da un ruolo apicale, portarono il super finanziere a lasciare la poltrona di via Nomentana per approdare, mesi dopo, alla Direzione Centrale per i Servizi Antidroga presso il Ministero dell’Interno, che guidò dal 2011 al 2014. Al comando dell’organismo interforze del Viminale, le competenze di De Gennaro si svelarono agli occhi degli Stati Uniti, raggiungendo l’apice con la cattura, avvenuta in Colombia nel 2013 dopo due anni di serrate indagini, del boss del narcotraffico Roberto Pannunzi, all’epoca massimo referente dei cartelli per la vendita di cocaina alla ‘ndrangheta, che lavorò con la mafia turca, il clan dei marsigliesi ed ebbe contatti con Gaetano Badalamenti e Gerlando Alberti. Disse il comandante nella conferenza stampa dell’operazione che ha portato il nostro Paese a segnare un successo internazionale: “Al momento Pannunzi è il broker più importante per il traffico di cocaina dal sud America all’Europa, in grado di movimentare migliaia di chili di droga: 8 transazioni su dieci, fino ad oggi, passavano da lui”. La formazione americana alla Dea, insomma, aveva dato i suoi frutti e, forte di quella sfida vinta, De Gennaro poteva tornare a casa, alla sua famiglia d’origine. Nel 2014, infatti, lo specialista antidroga venne nominato comandante regionale della Gdf Toscana e, nel 2020, divenne comandante interregionale dell’Italia meridionale, poi comandante dei reparti speciali, da cui dipende lo Scico, il servizio centrale investigazioni sulla criminalità organizzata, e ancora comandante interregionale dell’Italia centrale. Un percorso che lo ha portato, il 15 novembre dell’anno scorso, a diventare comandante in seconda della Guardia di Finanza, aprendo di fatto la possibilità che potesse essere lui il successore di Giuseppe Zafarana, soprattutto dopo la nomina di quest’ultimo a presidente dell’Eni, con un interim travagliato per il braccio di ferro nel governo sui nuovi vertici delle forze dell’ordine. Con Matteo Salvini che, non pago di aver piazzato diverse pedine nei posti che contano, ha tentato di tirare la volata anche sulla Gdf, puntando su nomi in continuità con le “politiche” di Zafarana. Forte anche di chi ha cercato di minimizzare i meriti della figura scelta da Fratelli d’Italia, giocando la becera carta di un fratello sempre troppo ingombrante.

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