epa11891809 US President Donald Trump speaks to the media in the Oval Office of the White House in Washington, DC, USA, 12 February 2025. Trump spoke after the swearing in of his nominee for Director of National Intelligence Tulsi Gabbard. EPA/JIM LO SCALZO / POOL
Il gran ballo dei dazi (reciproci) ossia quello che per Trump è una festa, per il resto del mondo è una iattura. Il presidente americano annuncia la firma sui dazi reciproci e lo fa parlando di “grande giorno”. Ieri, secondo il tycoon, l’America ha fatto un ulteriore passo per tornare di nuovo grande, il più importante probabilmente nelle “tre grandi settimane” appena passate dal suo insediamento alla Casa Bianca, forse (per lui) “le migliori di sempre”. L’ordine riguarda (per ora) l’import di metalli, acciaio e alluminio, che sarà gravato da tariffe doganali nella misura del 25% che raddoppiano fino al 50% per Canada e Messico. Nulla di nuovo, in fondo. Trump lo aveva già fatto durante il suo primo mandato e Joe Biden, che è succeduto, non ha mai pensato nemmeno lontanamente di toglierle. Il resto del mondo non ha accolto benissimo l’annuncio. Anzi, è da settimane che ci si prepara a quella che, senza chissà quale originalità, viene raccontata come l’ennesima Apocalisse pronta a incombere sul mondo così come lo conosciamo. La Cina ha parlato della scelta di colpire alluminio e acciaio come di un colpo potenzialmente letale per l’intera siderurgia mondiale.
Ieri è toccato a Confindustria suonare l’allarme. Il Centro studi di viale dell’Astronomia, pur riconoscendo che occorrerà, prima di poter valutare, comprendere se ed eventualmente quale sarà l’entità delle tariffe, parla di rischi considerevoli per l’Europa e per l’Italia. I numeri riferiscono che l’Italia ha venduto, negli Usa, beni per 65 miliardi di euro ricavandone un surplus da 49 miliardi. Quello americano, per l’economia del nostro Paese, è il mercato che più degli altri ha contribuito alla ripresa post-Covid. Per questo gli analisti del Csc fanno notare che “l’export italiano è più esposto della media Ue al mercato Usa: 22,2% delle vendite italiane extra-Ue, rispetto al 19,7% di quelle Ue. Tra i settori maggiormente esposti spiccano le bevande (39%), gli autoveicoli e gli altri mezzi di trasporto (30,7% e 34,0%, rispettivamente) e la farmaceutica (30,7%)”. Si tratta di voci che, da sole, costituirebbero circa il 90 per cento dell’intero surplus commerciale italiano con gli Stati Uniti.
Fanno riflettere le cifre legate agli investimenti: le aziende italiane, negli Usa, hanno investito 5 miliardi di euro, quelle americane da noi “appena” 1,5 miliardi. Però le multinazionali statunitensi, in Italia, contribuiscono per più di un quinto all’intero valore aggiunto nazionale mentre, nell’ambito della manifattura, da sole impiegano 110mila addetti. Ma il problema è che anche solo parlare di dazi scatena gli effetti dell’incertezza e l’attesa, in certi casi, è pure peggiore (nei suoi effetti) dell’applicazione stessa delle tariffe doganali: “Queste variabili alimentano l’incertezza, che frena gli scambi di merci, servizi e capitali produttivi”, spiegano dal Centro Studi Confindustria, secondo cui “un aumento persistente del 10% dell’incertezza mondiale sulla politica economica è associato a una minore crescita (nel trimestre successivo) di quasi mezzo punto percentuale del commercio mondiale, a seguito sia di un rallentamento dell’attività industriale che di una minore intensità degli scambi”.
C’è preoccupazione, in tal senso, anche in Europa. La Bce, nel bollettino mensile pubblicato ieri, ha riferito che “le importazioni Usa nel quarto trimestre 2024 sono rimaste una determinante fondamentale della crescita del commercio mondiale”. Ciò a dire che “in prospettiva se da un lato gli sforzi per anticipare potenziali restrizioni commerciali potrebbero continuare a sostenere il commercio all’inizio del primo trimestre del 2025, dall’altro potrebbero successivamente manifestarsi andamenti sfavorevoli, fra cui nuovi dazi e il venir meno dell’osservata anticipazione delle importazioni”. Se a Francoforte, che tra le altre cose ha confermato che l’inflazione sta calando e ha celebrato il definitivo distacco dalla Fed (ancora scettica sui tagli ai tassi), a Bruxelles si tende ad adottare un approccio che vorrebbe infondere all’economia un briciolo di ottimismo. Tutti, ma proprio tutti, ostentano fiducia e sfruttano, se si può dir così, la contingenza per presentare accordi e intese internazionali che non piacciono proprio a tutti. Come il patto di libero scambio siglato con il Mercosur che, secondo il commissario al commercio Maros Sefcovic, “ci aiuterà a risparmiare circa quattro miliardi in dazi doganali”. Non quelli americani, sia chiaro. “Eliminerà i dazi su beni fondamentali, come quello sulle auto del 35%, quello sui macchinari del 20%, quello sui prodotti chimici del 18% e sui prodotti farmaceutici del 14%. Questi dazi molto alti saranno eliminati completamente”, ha affermato Sefcovic lasciando sperare che il Sudamerica potrà assorbire una parte del commercio estero che, in caso di tariffe Usa, rischierebbe di andar bruciato. È evidente che non basterà cercare nuovi mercati per ovviare ai problemi che creerebbero i dazi statunitensi. E che andrebbero a complicare la crisi europea. Certificata dai dati Eurostat: la produzione industriale del vecchio continente ha perso l’1,1% a dicembre scorso mentre, nel 2024, ha lasciato per strada il 2 per cento. Per gli analisti Bce la via obbligata è una sola: sburocratizzare e seguire, pedissequamente, le indicazioni del rapporto Draghi sulla competitività.