Le ragioni della guerra dei dazi nello scontro globale tra Usa e Cina
Due dazi non fanno due ragioni. Prendersi una pausa dai dazi deve servire per tentare di capire, più a fondo, le ragioni vere dello scontro commerciale scatenato da Donald Trump. Dopo la scelta, da parte del presidente americano, di annunciare la sospensione delle tariffe per novanta giorni, arrivano – quasi telecomandate – due reazioni al limite del pavloviano. Il rimbalzo dei mercati e la scelta da parte dell’Ue di congelare, a sua volta, i controdazi da imporre agli States. Le Borse, che già lunedì avevano sperato in uno stop da parte di Trump, hanno iniziato a correre per recuperare tutto il terreno perduto in questa settimana di passione. In Europa la giornata è stata a dir poco tonica. Milano sugli scudi ha registrato un aumento del +6,25% che poi sulla scia della depressione che ha attanagliato gli Usa è calato a un pur lusinghiero 4,78%. Già perché a Wall Street, invece, le cose non sembrano andare granché bene. Per un motivo che, coi dazi, stavolta c’entra poco: i dati sull’inflazione Usa non sono buoni e gli investitori hanno ragione di credere che l’arcigna Fed dell’altrettanto arcigno Jerome Powell non abbasserà il costo del denaro, nonostante le richieste pressanti in tal senso che arrivano dalla Casa Bianca. L’oro torna a salire sopra i 3mila dollari mentre il petrolio continua a incespicare. E ciò, nelle prossime settimane, rischierà di causare nuovi sconquassi sul mercato energetico globale. Fin qui la cronaca del giorno. Poi ci sono i numeri, quelli dietro la decisione di Trump. Ieri dalla Casa Bianca è giunta la notizia secondo cui le tariffe complessive imposte ai produttori cinesi sono salite al 145%. Perché oltre alle gabelle imposte ultimamente c’è da contare, ancora, quelle relative al caso fentanyl nella misura del 20%. Trump coi dazi, non ha dichiarato guerra al mondo ma l’ha messo sull’avviso: gli Usa hanno scelto di riprendersi lo scettro del commercio globale. Le cifre restituiscono il quadro di un Paese che ha sudato tanto per fare la globalizzazione salvo poi farsela scippare dai cinesi. La più classica delle eterogenesi dei fini. La mappa, riportata da Econovis e stilata sulla base dei dati dell’Us Census Bureau e delle amministrazioni commerciali dei Paesi partner della Cina. Il confronto, in vent’anni, è più impietoso di quello della seconda elezione di Trump alla Casa Bianca. Solo che il rosso, dilagante, non è quello del Gop ma del commercio cinese. Che nel volgere di due decenni ha letteralmente conquistato il mondo imponendo Pechino come il player commerciale più importante al mondo. L’Africa, il Sudamerica e persino buona parte dell’Europa dialoga, a livello di scambi, più con l’Asia che con gli Stati Uniti. Il Medio Oriente, adesso più che mai decisivo per gli equilibri geopolitici mondiali, è tutto “rosso”. Così come lo sono diventate anche l’Asia, Giappone compreso e l’Oceania, con l’Australia davanti a tutti. I numeri sono impietosi. I conti del commercio cinese, nel 2024, sono pari a 3.575 miliardi di esportazioni a fronte di importazioni per “soli” 2.587 miliardi. L’intero giro d’affari supera i 6.163 miliardi di dollari e riporta un attivo spaziale che supera i mille miliardi. Dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, però, le cose non vanno bene. Gli Usa esportano per poco più di 2mila miliardi (2.065 per la precisione) e importano beni per 3.267 miliardi. Profondo rosso nei conti dei “blu” il cui fatturato globale si assesta sui 5.333 miliardi. Vent’anni fa, nel 2004, le cifre erano del tutto diverse. La Cina, non muoveva, in termini generali, più di 474 miliardi di dollari e la bilancia commerciale, rimaneva in attivo ma tra export (249 miliardi) e import (225) non c’era la sproporzione che c’è adesso. L’America, invece, dominava anche nelle cifre pur conservando uno squilibrio di fondo (1.211 miliardi in importazioni a fronte di 782 miliardi di export) che poi ha pesato, e non poco, sulla bilancia commerciale americana che Trump, ora, intende riequilibrare. Ma la vicenda, naturalmente, è soprattutto politica: con le importazioni e l’apertura nei confronti del mondo, infatti, Washington perseguiva, riuscendoci, per il tramite del debito una politica di primato globale. Che, adesso, Pechino non soltanto le ha scippato ma che ha pure volto a suo vantaggio guadagnandoci anche economicamente e non solo politicamente. Ecco, in sintesi, le (vere) ragioni dietro la grande guerra dei dazi. La vicenda, quindi, andrebbe meglio inquadrata in uno scontro tra potenze per il dominio (economico e commerciale) del mondo. Per questo le novità più importanti sono da rintracciare altrove piuttosto che nell’attacco all’Europa e nella corsa (folle) alla rivalutazione dell’euro. Ossia nella svalutazione di dollaro e yuan. Cina e America stanno facendo in modo che le loro monete nazionali diventino più abbordabili. Per allettare investitori e compratori stranieri, per rafforzare il ruolo delle due monete come valute globali di riserva mentre in Europa si indulge alla vanità di sentirsi forti se l’euro, proprio come vuole Trump, supera la pari con i bigliettoni. Questo è uno dei piani dello scontro. L’altro è quello del debito di Stato propriamente detto. E Pechino, che ha fiumi e fiumi di miliardi investiti in titoli e debito Usa, ha una pistola puntata su Washington. L’arma, dicono, definitiva, il bottone rosso che la Cina potrebbe utilizzare per sbarazzarsi dell’avversario. Scatenando, così, un’ennesima escalation dalla quale non si tornerebbe più indietro. Due dazi non fanno tre ragioni.
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