epa11953734 European Central Bank (ECB) President Christine Lagarde at the start of a Eurogroup finance ministers meeting in Brussels, Belgium, 10 March 2025. EPA/OLIVIER HOSLET
Dazi amari, amarissimi: ecco quanto ci costerò la guerra delle dogane tra Washington e Bruxelles se, entro il 2 aprile prossimo, non si troverà una soluzione. Ieri mattina, in audizione al Parlamento europeo, la governatrice della Bce Christine Lagarde ha fornito le cifre su uno scenario piuttosto orientato realisticamente. La simulazione degli analisti di Francoforte tiene conto di un’eventuale applicazione di dazi al 25% da parte degli Stati Uniti e di una controrisposta Ue di pari tenore. Ecco, se ciò dovesse avvenire, l’Europa si ritroverebbe, da subito, a perdere tre decimi di Pil e a guadagnare mezzo punto di inflazione. “Un dazio statunitense del 25% sulle importazioni dall’Europa ridurrebbe la crescita dell’area dell’euro di circa 0,3 punti percentuali nel primo anno”, ha dichiarato Lagarde. Che ha avvisato Strasburgo: “Una risposta europea sotto forma di aumento dei dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti farebbe salire questa riduzione a circa mezzo punto percentuale”. Per quanto riguarda i prezzi, Lagarde avvisa: “Nel breve termine, le misure di ritorsione dell’Ue e un indebolimento del tasso di cambio dell’euro, dovuto a una minore domanda statunitense di prodotti europei, potrebbero aumentare l’inflazione di circa mezzo punto percentuale”. Un aumento che, però, è destinato a svanire presto lasciando spazio a una realtà più dura e complicata: “Nel medio termine l’effetto si attenuerebbe poiché la minore attività economica ridurrebbe le pressioni inflazionistiche”. Per Lagarde, che alla lotta all’inflazione ha dedicato fino all’ultima goccia di credibilità, sarebbe un colpo al cuore dal momento che, come ha ripetuto anche al Parlamento europeo, il processo di disinflazione è ancora in corso nell’area euro e secondo le stime della Bce l’inflazione complessiva è scesa dal 2,5% di gennaio al 2,3% di febbraio, mentre le proiezioni indicano che nel 2025 il dato dovrebbe rimanere mediamente a quel livello, per poi scendere all’1,9% nel 2026 e stabilizzarsi al 2,0% nel 2027. Cogliendo, così, l’obiettivo (ideologico ma questa è un’altra storia) del 2% fissato all’inizio della cura da cavallo imposta all’economia Ue dopo l’insorgere della crisi energetica e del conflitto tra Russia e Ucraina.
I dazi, però, sarebbero più amari ancora per l’Italia e per il nostro sistema produttivo e industriale. Lo rivela l’Istat insieme a un dato davvero importante: tra il 2019 e il 2023 l’export del nostro Paese, in valore, è significativamente aumentato verso degli Stati Uniti (+47,5%) e la Cina (+47,8%). Considerando che, col Dragone, prima o poi i ponti si chiuderanno, il grosso rischio per le imprese italiane sarebbe quello di ritrovarsi senza la possibilità di vendere i propri prodotti sui grandi mercati americani. E sarebbe una iattura. Dopo la prima ondata di dazi disposta da Trump ai tempi del suo primo mandato, la situazione si era rasserenata quando, complice la chiusura definitiva con la Russia, il Made in Italy aveva trovato proprio negli Stati Uniti il mercato perfetto per sostituire quello con Mosca. Se dovessero chiudersi, o quantomeno complicarsi, gli affari con gli Usa per l’Italia sarebbe davvero impervio e rischioso trovare altri mercati capaci di assorbire la produzione che, oggi, viene destinata all’esportazione. Anche perché a tracciare la strada sarebbe l’Ue che, come ha dimostrato l’accordo col Mercosur, non riesce sempre a soddisfare gli interessi particolari delle economie degli Stati membri. Lagarde, a riguardo, ha rilanciato l’idea di cercare “una integrazione più stretta con il resto del mondo potrebbe più che controbilanciare le perdite causate da dazi unilaterali incluse le rappresaglie”. Ma quello degli Stati Uniti, almeno per l’Italia, resta un mercato tanto grande da essere oggi (quasi) insostituibile. Lo scenario di una guerra commerciale appare imminente almeno agli analisti Istat che hanno tracciato anche una mappa delle aziende italiane che rischierebbero di finire stritolate in una guerra doganale. Stando ai dati 2022, le imprese coinvolte sarebbero poco più di 23mila, appena lo 0,5% del totale. Poca roba, parrebbe. In realtà, no. Perché queste aziende impiegano poco più di 415mila lavoratori pari al 2,3% della forza lavoro generando il 3,5% del valore aggiunto e “pesando” sulla bilancia commerciale per circa il 16,5% dell’export totale. Si tratta, per lo più, di aziende manifatturiere (31%), mezzi di trasporto e automotive (rispettivamente 28,7% e 26,2%), lusso e pelletteria (27,3%), macchinari (24%). A complicare il quadro già nero è il fatto che, come si legge nel report Istat sulla competitività, vi sia, proprio nel mercato unico Ue, un ulteriore elemento di difficoltà poiché “presenta tuttora notevoli rigidità che si manifestano in significative barriere non tariffarie agli scambi interni, in particolare nei servizi”. E, dunque, “appare dunque difficile, almeno nel breve periodo, immaginare la possibilità di compensare le restrizioni dei flussi sui mercati extra-Ue con la domanda interna Ue”.
La guerra, però, appare inevitabile. L’Ue risponderà ad alcuni dei dazi americani entro metà aprile. Il commissario Ue al Commercio Maros Sefcovic ha spiegato a Strasburgo: “Stiamo ora valutando di allineare i tempi delle due serie di contromisure Ue, in modo da poter consultare contemporaneamente gli Stati membri su entrambe le liste. Ci darà anche più tempo per i negoziati per cercare di trovare una soluzione reciprocamente accettabile”. In pratica: “Tutte le contromisure Ue annunciate il 12 marzo entrerebbero in vigore a metà aprile. Questo approccio ci consentirebbe di fornire una risposta ferma, proporzionata, solida e ben calibrata alle misure statunitensi”. Saranno dazi amari, amarissimi. Per tutti.