Cucce piene, culle vuote
Cucce piene, culle vuote. Di questi tempi, giusto due anni fa. Fu allora che Papa Francesco puntò il dito contro quel “certo egoismo” che ha fatto della nostra la “civiltà dell’orfanità” in cui “si perde la ricchezza della paternità e della maternità” preferendo non fare figli, rinunciare anche ad adottarli, ma in cui si accolgono cani e gatti al posto dei bambini. Oggi, a distanza di qualche tempo, quella riflessione del Sommo pontefice è “diventata” un presepe. Che ha fatto discutere. A Segusino, in provincia di Treviso, la sacra scena della Natività, quest’anno, è stata rappresentata senza bambini ma con tanti animali. Il messaggio è lo stesso lanciato da Papa Francesco due anni fa. Ci sono sempre meno figli e sempre più pet trattati come figli. La questione, al solito, è sempre un po’ più complessa delle semplificazioni. Ma il presepe di Segusino non poteva capitare in un momento più adatto: nel 2024, stando ai dati provvisori diramati dall’Istat, si sono già contate 4.600 nascite in meno rispetto all’anno passato. Che, peraltro, era già stato abbastanza catastrofico sul fronte della natalità: in tutto ci sono state 379.890 nascite, ben 13mila in meno rispetto al 2022. In pratica, da un anno all’altro, è sparito un Comune di piccole dimensioni. Ma le cose diventano ben più complicate se si prendono in considerazione i dati dal 2008 a oggi. Diciassette anni fa si registrò il picco di nascite dall’inizio del nuovo millennio. Le culle furono ben 576mila. Il confronto con quelle attuali è impietoso. Si è perso più di un terzo dei nuovi nati, abbiamo rinunciato al 34,1% di nascite, ci sono 197mila italiani in meno. A sparire, così, è una città di medie proporzioni, un medio capoluogo di provincia.
Esperti, analisti e studiosi si interrogano sui motivi. Non appare un caso che l’ultimo davvero prolifico sia stato il 2008, anno che fu poi funestato dalla clamorosa crisi dei mutui subprime. L’eterna precarietà, il sogno di metter su famiglia “una volta sistemati”, ha fatto perdere tempo prezioso alle generazioni più giovani. Che, quando son finalmente riuscite a trovare una certa stabilità o, più semplicemente, hanno deciso che aspettare oltre sarebbe stato inutile, hanno provato a recuperare il tempo perduto. Senza riuscirci davvero. Perché l’età avanza e, nonostante le migliori condizioni di vita, la fertilità si riduce. Ciò è testimoniato dai numeri: l’Istat, difatti, rivela che l’età media al primo parto è salita a 31,7 anni. Considerando tutte le nascite, la media per le donne straniere è a 29,7 anni ma per le donne italiane sale a trentatré anni. Contestualmente, il numero di figli per donna è calato a 1,2. Siamo, in pratica, alla politica del figlio unico. E, difatti, se i primogeniti calano del 3,1%, la flessione dei secondogeniti nel 2023 è stata ancora più marcata: -4,5%. Questi elementi combinati insieme restituiscono un quadro d’insieme pericoloso e desolante in cui, come ha rimarcato l’Istat, nel 2024 si sarebbero registrate solo sei nascite ogni mille abitanti mentre, in Italia, per ogni neonato ci sono ben sei over 65.
E mentre i bambini latitano, gli animali tentano di colmarne il vuoto. Secondo il rapporto Eurispes 2024, il 37,3% degli italiani ha in casa uno e più animali domestici, un dato che, rispetto al 2023, sarebbe in aumento del 4,6%. Di questi, il 41,8 per cento ha (almeno) un cane in casa mentre il 37,7% degli italiani ha “adottato” un gatto. Eppure, mantenere gli animali domestici costa (almeno) cento euro al mese. A tanto, si legge dai dati Eurispes, ammonta la spesa per il 60% degli italiani. Ma non è così raro trovare pure chi va oltre: il 20 per cento di chi ha adottato un pet spende fino a trecento euro al mese, quindi una somma che si aggira attorno ai 3.500 euro l’anno. Uno degli ultimi trend, in fatto di animali domestici, riguarda le assicurazioni. Proprio sotto Capodanno, col rischio botti, tanti padroni si sarebbero convinti a sottoscrivere polizze per tutelare i loro amici a quattro zampe. Ma la pet economy è un settore in netta espansione. Così come è in decisa decrescita la propensione a fare figli. E proprio sotto le feste, tra decine e decine di proclami a metter su famiglia come se bastasse solo volerlo, la categoria dei trend topic digitali ha portato in auge, complice la scarsità di notizie a Natale e la necessità di far clic a tutti i costi, il fenomeno dei cosiddetti Dink. È un acronimo (dual income, no kids) che nasconde una brutta parola che vuol dire imbecille e che, ai tempi della guerra in Vietnam, era utilizzata per bullizzare i vietcong. Si tratta di coppie che esalterebbero lo stile di vita di chi ha accesso a due stipendi e decide di non fare figli. Con tutti i “vantaggi” o supposti tali della mancanza di genitorialità: niente responsabilità, niente rumori molesti né urla, notti tranquille o divertenti, e via discorrendo. Un baratto che sembra dare ragione al Papa. Una tendenza social, l’ennesima moda digitale, che nasconde dietro i balletti un profondo malessere individuale (talora) e un pericolo imminente per tutti (certo). Per comprenderlo, basta vedere cosa accade in Giappone. Il Sol Levante s’è incamminato prima degli altri, in Occidente, lungo il cammino della denatalità. Oggi ne paga le conseguenze. Basti pensare che il governo di Tokyo ha licenziato, poco dopo Natale, una manovra di proporzioni record da 701 miliardi di euro (115,5 trilioni di yen) e che addirittura un terzo dell’intera somma (più di 38 trilioni di yen) sarà devoluta al welfare. Per sostenere gli anziani, sempre più numerosi, e i servizi alla terza età, da una parte. Dall’altra per tentare di rilanciare la natalità perduta. Uno sforzo titanico che sarà reso possibile da introiti fiscali record (la stima è di ricavare almeno 78 trilioni di yen dalle tasse) e dall’indebitamento del Paese (28,65 trilioni in obbligazioni di nuova emissione). Il governo italiano, oltre alle politiche espansive e di sostegno alle famiglie, ha lanciato, col ministro all’Economia Giorgetti l’idea di un’agenzia per la natalità. Chissà se basterà, e se servirà a far sì che bambini e cagnolini non siano più intercambiabili tra loro ma che possano crescere, e giocare, insieme.
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