Editoriale

Che vinca Trump per il bene di tutti

di Adolfo Spezzaferro -


Chi vincerà non sarà riconosciuto come vincitore da chi sarà sconfitto. Eppure, nonostante lo spettro dei brogli, il terrore del pareggio fino al penultimo voto, l’angoscia per gli eventuali riconteggi, un vincitore dovrà esserci. Lo impone il sistema democratico di quella che sembra tutto tranne che una democrazia. Al loro punto più basso nella storia delle campagne elettorali per la Casa Bianca – tra attentati falliti, insulti, vip militanti e reginette pop schierate, bugie a tonnellate e confronti rissosi, accuse ridicole e complottismo sfrenato – gli Stati Uniti, come abbiamo scritto su queste colonne, rischiano una guerra civile. A meno che il vincitore non sarà netto, certo, con numeri insindacabili e la prova provata che non ci saranno stati brogli. È una democrazia sui generis quella a stelle strisce: ha un sistema elettorale a dir poco cervellotico; ha solo due partiti che sono d’accordo quasi su tutto, storicamente; ha un voto di scambio legale, con le lobby di potere che fanno apertamente pressione sui politici. È un paese dove chi non ha i soldi non può fare politica (e quindi chi te li dà poi batte cassa); dove chiunque può comprarsi un fucile d’assalto per posta e per posta può votare (a meno che non ti brucino la cassetta con il tuo voto dentro); dove c’è la pena di morte e c’è il fentanyl a ogni angolo di strada che falcia i poveri e gli emarginati; dove c’è il più alto numero di carcerati; dove si inquina più che in ogni altro angolo del pianeta (persino più della Cina); dove c’è il più alto numero di stupri e di sparatorie. È il paese che fa più guerre in giro per il mondo. Si dice che negli States tutto è più grande: sì, il debito, l’immigrazione clandestina, il consumo di droghe, il numero di crimini, la cilindrata delle automobili a benzina, il numero di mega-miliardari. Tutto è più grande ma non si dica che gli Stati Uniti sono la più grande democrazia del mondo. Oggi gli States sono profondamente, pericolosamente spaccati in due. A prescindere dall’esito del voto, l’America profonda è profondamente divisa e contrapposta. Da una parte infatti ci sono i dem, i liberal di città, tutti woke e diritti Lgbt (e con loro ci sono Hollywood, lo showbiz e gran parte di tv e giornali); dall’altra ci sono i redneck, i contadini, gli operai, i timorati di Dio contrari all’aborto e che non ne possono più delle guerre (quella in Ucraina su tutte) scatenate dai dem a spese degli americani, persino gli islamici preoccupati per l’escalation in Medioriente. Ecco questi americani delle campagne e dei piccoli centri – che sono tanti, davvero tanti – a conti fatti dovrebbero votare per Trump. Eppure c’è il rischio che la sua vittoria non sarà abbastanza netta per poter amministrare gli Usa senza problemi di sicurezza e di proteste di piazza. Noi speriamo che The Donald vinca senza se e senza ma. Per il bene nostro, dell’Europa e del mondo. Perché Trump ha ripetuto all’infinito che porrà fine alla guerra tra Nato via Ucraina e Federazione Russa; ha assicurato che sistemerà le cose in Medioriente; ha più volte annunciato che rivedrà la natura stessa dell’Alleanza Atlantica. Sì, è vero: in caso di vittoria, Trump chiederà ai membri Nato di pagarsi la difesa e di garantirsi la difesa senza più l’ombrello dello zio Sam, ma forse da Washington arriveranno pure meno ingerenze. Perché Trump vuole dedicarsi agli americani – isolazionismo lo chiamano i suoi detrattori. E questo per noi è un bene, anche se ci saranno dazi contro i nostri prodotti. È comunque preferibile alle sanzioni a oltranza contro la Russia, che penalizzano l’economia Ue (e non quella americana). Sì, perché per poter ricostruire gli Usa dal loro interno – è questo il programma – Trump deve prima necessariamente ridurre la conflittualità internazionale. Deve per forza perseguire la stabilità su base globale, magari con una sorta di Yalta 2.0 spartendosi le sfere di influenza con Cina e Russia, per intenderci. Uno scenario plausibile, in linea con il multipolarismo che per The Donald – che è un uomo concreto e senza pregiudizi ideologici come i dem – è un dato di fatto, che va sfruttato, per l’appunto. E dovremmo sfruttarlo anche noi. Autonomia strategica si chiama. Proprio quella che manca all’Unione Europea.


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