Che pena questa riabilitazione
di Elisabetta Aldrovandi
Entrare in carcere è un’esperienza devastante, sotto ogni aspetto. Chi varca la soglia di una cella diventa un “ristretto”. Una parola che ben delinea il significato di una persona privata di tutto, a partire dal bene più prezioso: la libertà. Ovvio che, tranne casi di scongiurati errori giudiziari, chi viene condannato ad una pena detentiva ha violato regole importanti della convivenza civile, spesso causando gravi danni al prossimo, di natura patrimoniale o personale. E quindi è giusto che risponda di quanto fatto, anche rinunciando, per un periodo, a ciò che per il resto dei consociati è qualcosa di scontato: dalla colazione al bar la mattina, alla passeggiata in centro, alla coltivazione delle relazioni amicali e sessuali. Ma prima o poi quella persona, tranne ipotesi di ergastolo ostativo, recupererà il bene primario di cui è stato giustamente privato. E se nel momento in cui rientrerà in società non avrà pienamente preso coscienza del disvalore morale e giuridico dei suoi reati, le probabilità che torni a delinquere sono, purtroppo, molto elevate. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: ben il 62% del detenuti è recidivo, il che pone problemi su quanto l’Italia rispetti il dettame del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, in base al quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. E questa rieducazione dovrebbe partire innanzitutto dal modo in cui i detenuti vengono trattati in carcere. Anche qui, i numeri sono piuttosto sconfortanti: in base ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 30 giugno 2022, i detenuti in carcere erano 54.841. Di questi, 2.314 erano donne e 17.182 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un tasso di sovraffollamento del 107,7%. Le carceri in Italia sono 192: dalle visite effettuate in 85 istituti penitenziari negli ultimi dal luglio 2021 al luglio 2022, gli osservatori hanno rilevato che in quasi un terzo (31%) degli istituti ci sono celle in cui non sono garantiti i tre metri quadrati calpestabili a persona. Una situazione che peggiora durante i mesi caldi: basti pensare che nel 58% delle celle non c’è una doccia. Infine, nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria. Insomma, una situazione generale che non soltanto pregiudica il diritto del detenuto a essere riabilitato in vista del suo rientro in società, ma che rende la vita carceraria spesso intollerabile, con la conseguenza che sempre più frequenti sono gli episodi di violenza tra detenuti e contro gli agenti della polizia penitenziaria. In questo contesto, sempre maggiore importanza acquisisce la necessità di ricorrere a misure di giustizia riparativa, che diano la possibilità, soprattutto a chi è al primo reato, di scontare la pena in modo “produttivo” per sé e per la collettività, senza limitarsi ad aspettare in una cella il giorno della scarcerazione. Prevedere sanzioni alternative al carcere, dà anche l’opportunità al condannato di evitare il rischio del cosiddetto “contagio carcerario”, che spesso infetta coloro che, senza un bagaglio familiare e valoriale adeguato, si ritrova detenuto senza la possibilità di costruirsi adeguate prospettive una volta uscito. Infine, visto l’elevato numero di detenuti stranieri, sarebbe importante prevedere un meccanismo di espulsione anticipata rispetto al fine pena, come avviene in Germania, dove, scontati i due terzi della condanna, lo straniero detenuto viene espulso e rimandato nel Paese di origine. Non si deve dimenticare, infatti, i costi del sistema penitenziario in Italia: circa tre miliardi di euro all’anno, spesi più per contenere e reprimere che per rieducare. Il che, non va bene. Non in uno Stato, che ambisca a essere di diritto.
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