Il ceto medio non esiste più: Italia povera e sfiduciata
Guadagnare tutti, guadagnare meno: altrimenti, per il ceto medio (o ciò che ne rimane), sarà la fine. E rimarranno solo super-mega-miliardari da un lato e uno sterminato proletariato (si può chiamare ancora così, anche se viviamo nell’inverno demografico più rigido di sempre?) ai margini. L’allarme arriva dal Rapporto Cida-Censis dedicato proprio al ceto medio (o ciò che ne rimane, repetita iuvat). Secondo l’analisi, il 54,2% degli italiani si “sente” in zona retrocessione. Un cittadino su due sta provando sulla sua pelle la sensazione di scivolare, all’indietro ça va sans dire, nella scala sociale. E la stragrande maggioranza di loro proviene, almeno culturalmente, dal ceto medio. Ma il senso di impoverimento è diffuso: il 62% di chi si identifica nei ceti popolari ha paura, così come il 42,2% di chi, nonostante tutto, si ritiene ancora benestante. Ma non basta. Perché il 59,7% dei cittadini sente, chiaramente, una compressione del suo tenore di vita: un crollo percepito dal 74,4% dei redditi fino a 15 mila euro, dal 63,6% tra 15 mila e 35 mila euro, dal 52,1% tra 35 mila e 50 mila e dal 40,3% dei redditi pari a 50 mila euro e più.
Queste sensazioni derivano, dunque, dalla vita quotidiana degli italiani. E i numeri sciorinati nel rapporto rappresentano la più plastica esegesi al trionfo del populismo di ieri e all’astensionismo dilagante di oggi. Difatti, il 48,8% degli italiani vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% ha la convinzione di un concreto blocco della mobilità verso l’alto. Ma c’è di più. Il 57,9% degli italiani credono che impegno e capacità non vengano adeguatamente premiati (di questi, il 54,9% del ceto medio). Eppure gli italiani non sono diventati, d’un tratto, né comunisti né nemici dell’iniziativa privata. E difatti l’81% degli intervistati pensa sia giusto che chi lavora di più guadagni di più, e il 73,7% ritiene più che legittimo il fatto che una persona talentuosa e capace possa diventare ricca. Il problema è nel manico. Lo scenario è questo: il Pil italiano è cresciuto del +41,6% tra il 1970 e il 1980, del 25% nel decennio successivo, per poi proseguire nel lento declino, che segna solo un +17,9% negli anni Novanta, e poi mette a referto il crollo a +3,5% nel quadriennio 2019 – 2023. Chi ha pagato e sta pagando quello che solo per un pietoso eufemismo si può chiamare “downsizing”, cioè rimpicciolimento, economico? Il ceto medio, le fasce popolari della nazione, gli esclusi. Quelli che qualche politico sicuramente più celebrato e ammirato (per quale ragione? Ah, non saperlo…) che illuminato, non in Italia, per carità, ha definito “deplorevole feccia”. Perdendoci un’elezione già vinta, almeno questo. È un fenomeno, questo dell’impoverimento generale, che attanaglia tutto l’Occidente. Decenni di globalizzazioni e deregulation hanno chiesto il conto. E ci ritroviamo con un mercato del lavoro sempre più disastrato, un’economia sempre più ir-reale e finanziaria, un aumento esponenziale (ma solo in termini percentuali) di ricconi e multimiliardari a fronte di masse sempre più arrabbiate e deluse.
E in Italia più che altrove. Dal momento che, rilevano gli analisti Cida-Censis, hanno rilevato come dal 2001 al 2021 il reddito pro-capite delle famiglie italiane sia sceso del 7,7%, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%. Ecco spiegate, in un pugno di righe e in una manciata di numeri, le ragioni del disastro demografico e dell’astensionismo dilagante. Un segnale, tra gli altri, è ancora più inquietante. In pratica, secondo il Rapporto, l’11,3% di chi si sente ceto medio non guadagna nemmeno 15mila euro l’anno. Non è presunzione, né orgoglio da nobilissimi decaduti. È, più semplicemente, il destino che è toccato a chi, “dentro” il ceto medio ci è cresciuto, si è formato, per poi ritrovarsi a guadagnare molto meno di quanto facessero il padre, la madre, i nonni. È un’appartenenza più culturale che economica. E rischia, oggi, di restare solo quello, un’identità vuota, un ridimensionamento. Un mondo di hobbit disperati e atterriti dai draghi che custodiscono, più gelosamente di Smaug, vere e proprie montagne d’oro.
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