Attualità

Cassazione: Zonin affondò BpVi, il sistema criminale vale 3 anni

di Ivano Tolettini -


Il banchiere Gianni Zonin (nella foto) e i manager del gruppo creditizio Andrea Piazzetta, Emanuele Giustini e Paolo Marin – mentre la posizione del dg Samuele Sorato condannato di recente anche in Appello passerà al vaglio della Suprema Corte nei prossimi mesi -, sono responsabili in via definitiva della gestione delittuosa che spazzò via la Banca Popolare di Vicenza nel 2014, bruciando 7 miliardi di attività e danneggiando 94 mila soci sparsi soprattutto tra Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Lazio e Sicilia. La Cassazione l’altra sera respingendo nella sostanza il ricorso dell’88enne imprenditore vitivinicolo di Vicenza, cui ha inflitto la pena di 3 anni 5 mesi di reclusione, limando sei mesi rispetto alla condanna in Appello a Venezia del 2022, ha fatto passare alla storia giudiziaria d’Italia uno dei due clamorosi tracolli finanziari – l’altro fu quello di Veneto Banca costato 6 miliardi a 75 mila soci – che sconvolsero non solo il Veneto a cavallo del 2014-2015. La causa fu una gestione scellerata da parte di manager inadeguati e voraci che per salvaguardare i loro lauti stipendi – oltre 1 milione di euro l’anno per il solo Zonin, presidente dal 1996 al 2014 – affossarono le aspettative sociali e di decine di migliaia di persone, molte delle quali andarono incontro anche a tragedie personali, magistralmente descritte da Antonio Albanese nell’esaustivo film “Cento domeniche”. Dieci anni dopo l’apertura dell’inchiesta da parte dell’allora Procuratore capo di Vicenza, Antonino Cappelleri, che coordinò il lavoro dei sostituti Luigi Salvadori e Gianni Pipeschi, e della Guardia di Finanza di Vicenza e Roma, trovano fondamento giuridico le accuse a vario titolo di aggiotaggio, ostacolo delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e falso in prospetto. Invece, si dovrà rifare nel merito il processo all’altro manager Massimiliano Pellegrini. Dunque, quello che venne definito il “sistema Zonin” ha trovato accoglimento nell’analisi giuridica di legittimità. Si trattava di un meccanismo che tramite la diffusione di notizie false da parte di Zonin e i vertici per alterare il valore delle azioni con comunicazioni periodiche atte a tranquillizzare il pubblico dei risparmiatori, venivano ingannati i soci portati a credere che i titoli valessero 62,5 euro l’uno. Per anni furono così perturbati il libero gioco del mercato delle azioni di BpVi, ritenute dai soci dei titoli sicuri. Il loro numero complessivo lievitò da 78 milioni nel 2010 a 94 milioni nel 2014 per nascondere lo stato di insolvenza in cui di fatto giaceva la banca a causa di una gestione avulsa dalla realtà finanziaria dopo il crac Lehman Brothers del 2008. Così da un lato le esagerate valorizzazioni – rispetto a quelle delle principali banche – delle azioni BpVi, che crescevano ogni anno per invogliare i soci a sottoscriverle, e dall’altro una errata politica del credito (non a caso risultato troppo facile), erogato per miliardi di euro in spregio ai criteri fissati dalla Bce, per sostenere anche il sistema manifatturiero e dei servizi in difficoltà, minò i fondamentali dell’istituto. Fu così che Zonin e i manager per mascherare le gravi difficoltà gestionali che avrebbero portato alla liquidazione coatta, diedero il via libera ad aumenti di capitali sostanzialmente fittizi per centinaia di milioni di euro. Infatti erano pilotati tramite il meccanismo delle cosiddette “operazioni baciate” – i soldi li metteva la banca in cambio della sottoscrizione di mutui da parte dei nuovi e vecchi soci – per sopravvalutare il patrimonio di vigilanza e ingannare autorità regolatrici, risparmiatori e clienti. Per la Cassazione fu una attività bancaria colpevolmente svolta in difetto dei coefficienti patrimoniali di doverosa prudenza, ordita ai danni della vigilanza e in qualche caso degli organi collegiali di BpVi – che chiusero gli occhi -, perché nei fatti complici di un sistema di potere imperniato su Zonin e manager silenti, che circondati da collaboratori incapaci a vari livelli di valutare la crisi imminente, e così diventati loro malgrado “utili idioti”, contribuirono al dissesto dello storico istituto di credito popolare, il primo del Veneto ad essere fondato nel 1886.


Torna alle notizie in home