Caso Almasri, il governo tiene la linea. Le opposizioni anche
L’informativa dei ministri Nordio e Piantedosi sul caso Almasri, come era scontato, ha scatenato un dibattito duro e schietto nelle aule parlamentari, non tradendo le aspettative di chi preventivava – o si augurava – toni particolarmente accesi. I titolari dei dicasteri della Giustizia e dell’Interno hanno fornito a deputati e senatori un resoconto particolareggiato ed estremamente dettagliato della vicenda e delle sue varie sfaccettature, per rimarcare, dopo le durissime critiche ricevute, la correttezza dell’operato del governo, ma anche quello che il Guardasigilli ha definito come “un immenso pasticcio” della Corte Penale Internazionale che ha trasmesso “un atto che, secondo noi, era nullo”. Quella di Nordio, che ha anche tenuto a sottolineare di non essere “un passacarte” della Cpi, è stata dunque una difesa a spada tratta delle prerogative in capo al suo ministero. Lo stesso è stato fatto da Piantedosi che ha rivendicato la scelta di espellere e rimpatriare Almasri in nome della sicurezza e “dell’interesse nazionale la cui tutela è prerogativa e dovere di ogni governo e che noi consideriamo cruciale difendere in ogni campo”. E quasi a voler rispondere ad alcune ricostruzioni e accuse precise, il titolare del Viminale ha smentito possa esserci stata qualche “forma di pressione indebita assimilabile a minaccia o ricatto da parte di chiunque”, aggiungendo che “Almasri non è mai stato un interlocutore del governo per vicende che attengono alla gestione e al contrasto del complesso fenomeno migratorio”.
Se quanto riferito dai ministri ha rafforzato la posizione della maggioranza nel fare quadrato attorno al governo, sul fronte avversario, anche l’opposizione ha tenuto la linea e confermato una ritrovata compattezza, con Elly Schlein netta nell’accusa di “aver minato la credibilità internazionale dell’Italia” e di nascondersi “dietro i cavilli e il giuridichese” dinanzi a quella che è stata una chiara “scelta politica”. Come fatto poi da Giuseppe Conte, anche la segretaria dem ha duramente recriminato per la “grande assenza del presidente Meloni”. Un sentiment, in realtà, bisbigliato in modo trasversale in Transatlantico, con più di qualcuno che fa notare come “se ci fosse stato Berlusconi a Palazzo Chigi sarebbe certamente venuto lui a riferire in Parlamento”. Matteo Renzi, invece, al Senato ricama in maniera differente sul mancato intervento della premier, ritenendo che “quella seggiola vuota là è la cosa più intelligente che Meloni potesse fare oggi” perché dopo aver “scarcerato il boss dei boss ha perso la faccia e da oggi non può più parlare di sicurezza”.
Ovviamente, il dibattito è inevitabilmente scivolato anche sui risvolti giudiziari del caso del generale libico, ovvero sull’iscrizione di mezzo governo nel registro degli indagati. A tal proposito, il deputato di Forza Italia Giorgio Mulé ha ricordato che “questa non è un’aula tribunale. I banchi dove siedono i ministri non sono un banco degli imputati e noi non siamo giudici”. Ettore Rosato di Azione ha detto, invece, di non ritenere “corretto che un pm prende una denuncia di otto righe e questa si trasforma in un atto d’accusa verso il premier e i ministri. Non è utile, perché non è un atto dovuto”. Ciononostante, ha aggiunto, “non possiamo trasformare tutto in uno scontro”.
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