Capitale umano e leadership
Cristiano Delbò esplora come la leadership e il capitale umano stiano ridefinendo le dinamiche aziendali nell’era dell’innovazione.
Il concetto di leadership ha vissuto progressive evoluzioni. Un tempo, l’autorità (headship) prevaleva, e doveva prevalere, sull’autorevolezza. Le organizzazioni aziende, allora tutte, indipendentemente dai loro livelli dimensionali, fortemente gerarchiche e piramidali, necessitavano di manager (capi) orientati in primis ad imporre la vision della proprietà e, solo in secundis, anche a valorizzare le istanze dei dipendenti (sottoposti) e dei collaboratori (raramente partner nell’accezione più moderna del termine). Ad occuparsi di tali ultime istanze erano le direzioni del personale, le quali si dedicavano quasi esclusivamente ai delicati rapporti con i sindacati, alle politiche retributive ed ai collegati aspetti di natura amministrativa, senza particolari interessi per questioni “altre”.
Poi sono arrivate le risorse umane
E tutto è cambiato. I delicati rapporti con i sindacati sono stati fatti transitare in nuove divisioni, interne alle direzioni, costituite da professionisti della materia e focalizzate sulle PR. Le politiche retributive, nelle quali i meccanismi di variabile (compensation system) ed i cosiddetti benefit hanno assunto pesi specifici sempre più rilevanti, sono state, almeno in parte, condivise con soggetti esterni (outsourcer) specializzati, oltre che nell’elaborazione delle buste paga (payroll in senso stretto), anche in una più ampia, e più efficace, gestione dei collegati aspetti di natura amministrativa (note spese, rimborsi chilometrici, calcoli e corresponsioni provvigioni agenti, ticket restaurant, parchi auto, etc…), tramite l’ausilio di tool sempre più avanzati.
Valorizzare le istanze di dipendenti e collaboratori
A quel punto, le ribattezzate risorse umane, liberate, parzialmente o totalmente, da una serie di adempimenti, hanno potuto concentrarsi sulle valorizzazioni di quelle istanze, di dipendenti e di collaboratori, prima confinate ai margini.
È stato un bene? Assolutamente sì.
Le liberate energie si sono potute orientare sia sulle logiche di reclutamento e selezione (autonome od in partnership con società specializzate) sia sulle logiche di formazione interna (favorite da un dialogo più puntuale con i cosiddetti hiring manager, ovverossia con i responsabili delle diverse funzioni aziendali necessitanti di nuovo personale o di riqualificazioni del personale già in organico).
Soprattutto, le liberate energie hanno iniziato a mettere veramente al centro le persone, con tutte le virtuose conseguenze inerenti, in senso lato, le socialità collegate e derivanti dall’occupazione e dal lavoro. Un maggiore senso di appartenenza prima favorisce l’engagement e poi migliora le performance.
Le introdotte politiche di welfare diventano un plus che le organizzazioni aziende più strutturate possono spendere sul mercato a loro vantaggio ed a svantaggio dei loro competitor.
Sia per attrarre le candidature più qualificate sia per fidelizzare (fare retention) sulle risorse divenute asset.
Dal termine “risorsa” al “capitale umano”
Già, le risorse. Proprio qui, su questa parola, si comincia a riflettere. Essendo un termine troppo riconducibile ad aspetti comunque di natura economica, non è più un termine realmente idoneo a qualificare una persona. La risorsa umana si trasforma, quindi, in capitale umano. Ed il capitale umano, meglio ancora le politiche people, alzano, ancora di più, l’asticella.
Un futuro definito dall’intelligenza artificiale
È un bene? Assolutamente sì, soprattutto in un’era che si accinge ad affrontare cambiamenti epocali. Pensiamo all’intelligenza artificiale, a come impatterà sulle nostre vite e a come ridefinirà funzioni e processi. In positivo, sicuramente, perché è progresso ed il progresso alimenta la nostra specie.
Ma, come già avvenuto in precedenza, precisamente ad ogni rivoluzione industriale fino all’introduzione di Industry 4.0, da comprendere, da spiegare e da introdurre per gradi, per non generare panico ingiustificato, per vincere le umane resistenze e per permettere il raggiungimento di nuovi risultati.
Leadership e autorità: trovare il giusto equilibrio
Quindi, tutto bene? Non proprio.
La crescita dal “basso” di dipendenti e di collaboratori ha schiacciato i manager, non più così in “alto”.
La piramide della quale abbiamo parlato in apertura del presente articolo sta assumendo nuove forme geometriche.
Se la riduzione dell’headship (autorità) rappresenta senza dubbio un’evoluzione, la strisciante riduzione della leadership (autorevolezza) potrebbe rappresentare, a tendere, altrettanto senza dubbio, una pericolosa involuzione.
Un tema da attenzionare
Un vecchio adagio recitava: “La troppa confidenza fa perdere la riverenza.”
Tradotto: mantenere le distanze può essere opportuno, l’invasione di spazi altrui può essere controproducente, intaccare rapporti consolidati oltrepassando i limiti può generare tensioni.
Recuperare la consapevolezza
A decidere si è sempre in pochi, se non in pochissimi. La falsa apparenza di decisioni condivise porta, spesso, a banale frustrazione più che a reale coinvolgimento. Corto circuito? Non ancora, ma recuperiamo, tutti, consapevolezza. Consapevolezza che deve fondarsi sulla comprensione, e sul rispetto, dei ruoli. Comprensione e rispetto che non devono mai venire meno. Le organizzazioni aziende diventeranno sempre più orizzontali e liquide, pacifico. Ma le persone che rappresentano anima e spirito delle organizzazioni devono fare un passo in avanti.
Una leadership da rivalutare
Dipendenti e collaboratori non devono scambiare i raggiunti successi (non concessioni ottenute) per presunti insuccessi (o, peggio, sconfitte) dei loro top manager. Quei successi sono di tutti, anche dei top manager che ne hanno avallato l’introduzione. I top manager, tuttavia, devono ora investire al massimo delle loro capacità sulla loro leadership (autorevolezza), ora che la loro headship (autorità) ha perso (giustamente) parte del proprio potere. Trattasi di un passaggio fondamentale.
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