Attualità

Il Paese in bilico, il Buco Nero della nostra storia

di Giovanni Vasso -


Ci finisce tutta (o quasi) la Prima Repubblica nel “Buco Nero”, la nuova serie di Flavio Tranquillo che andrà in onda da stasera alle ore 21 su Sky Tg24 e sarà presto disponibile on demand. Un viaggio in sei puntate, dal ’47 fino al 1994, che si propone di raccontare una storia critica delle strategie della paura che hanno segnato la storia del nostro Paese.

Tranquillo, nel Buco nero c’è un periodo lunghissimo di cui, oggi, si sente perfino nostalgia. Che cosa sono stati quegli anni?

Sono stati molte cose insieme, naturalmente. La violenza e le stragi hanno convissuto con progressi enormi in campo sociale e culturale. Spinte nefaste e spinte feconde si sono succedute, creando un blocco nel quale è sbagliato cercare di isolare solo l’una o l’altra componente. Dentro questo blocco c’è stato anche qualcosa di trasversale: i registi di certe operazioni hanno usato mezzi biechi e raffinati per controllare e orientare politicamente i cittadini, violenza e stragi incluse.

Quanto pesa la drammatizzazione, la rappresentazione pop di quegli anni complessi e difficili, sulla memoria condivisa del Paese?

Se la memoria condivisa, a me piace di più “collettiva”, esiste, allora il lavoro che ho fatto ha poco senso. Io ipotizzo invece, e spero di non sbagliarmi, che purtroppo esistano molte memorie individuali, che non si sono fuse in una memoria collettiva per un numero enorme di fattori. Tra questi, c’è anche la preponderanza di un approccio “cinematografico” al tema rispetto a uno “storiografico”. I film sono una nobile attività, e non vanno certo criminalizzati, al pari di fiction, pubblicistica e memorialistica. La delicatezza e difficoltà del tema non può però fare a meno degli studiosi che si sono applicati al periodo. Dire che non abbiamo avuto una grande ribalta, anche per i loro limiti, mi pare eufemistico. Provare a dargliela è il senso de “Il Buco nero”.

“Non sarà un’inchiesta e non darà risposte”. Eppure, di solito, chi si inerpica lungo i sentieri bui di quegli anni “ha” sempre una sua verità. Perché questa scelta?

Perché sarebbe arrogante, da parte di un outsider come il sottoscritto, partecipare al gioco di società del “chi è stato?”. Perché proprio con quel gioco di società abbiamo aggiunto caos a caos, facendo il gioco di quelli che Aldo Moro definì “gli strateghi della tensione”. E perché spesso confondiamo l’espressione “una verità” con “una verità qualsiasi”, quando invece dovremmo cercare una verità storica completa, che non significa affatto stabilire minuto per minuto cosa è successo, ma vedere i fatti nel loro insieme e comprenderne il senso.

Sei parole: complessità, paura, ideologia, inganni, Stato e comunicazione. Ma ce n’è anche un’altra: strategia. C’è tutto di quegli anni. Ma quanto c’è dei nostri tempi?

C’è tantissimo, perché non abbiamo risolto quei traumi, e ce li portiamo dietro per intero, e perché certe cose tornano ciclicamente. Il cammino di ricerca della verità storica mi pare l’unico in grado di rendere il paese più libero e la democrazia più compiuta. Solo che se ognuno vuole imporre la sua verità, spesso fondata su premesse parziali se non veri e propri pregiudizi, la suddetta democrazia resterà per sempre a scartamento ridotto. Anche perché la memoria di quei fatti sta scolorendo con il tempo.

Per spiegare le ragioni che l’hanno spinta, da grandissimo giornalista sportivo, a indagare negli anni del “buco nero” lei ricorda che “in quegli anni c’ero e dormivo”. Un richiamo al giovane Tranquillo o un appello alle coscienze che oggi si sono assopite?

Un richiamo forte a me stesso, con tutta l’autocritica che è possibile fare. Io però faccio, appunto, il giornalista sportivo, e a differenza del mio amico Francesco Piccolo non posso scrivere un romanzo sul tema. Posso provare a portare il mio mattoncino, di lettore di atti e fatti e di cultore di studi storici e sentenze, cioè il materiale che ho provato a compendiare, da cittadino per i cittadini.


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