Attualità

I POTERI CORTI – La precarietà, colpa solo dell’imprenditore?

di Marco Travaglini -


La complessa questione lavoro: c’è chi ne parla “novecentescamente”, considerando inquadramento/ruolo/mansione e salario (spesso con propagandistiche convinzioni su quello minimo); chi lo considera sempre meno un fattore di identità personale, forse per il crollo di ideologie troppo incentrate sui diritti; chi lo subordina al proprio stile di vita, si pensi alle nuove teorie di work-life balance (che chiamerei life-work balance…) e chi pone al primo posto la crescita professionale: verticale, trasversale, inclusiva in team od autonoma con obiettivo.
Per non parlare della diffusa inconsapevolezza di come lo smart working – espressione del più ampio remote working – includa maggiori livelli di responsabilità, trasparenza e comunicazione: un approccio adulto, insomma, avulso da imposizioni genitoriali, timbrature et similia, forme di controllo vetuste del ‘900.
E ancora: flessibilità; sostenibilità e responsabilità; diversità, equità, inclusione; apprendimento, formazione continui e competenze digitali per ogni tipo di lavoro, fino al problema del mismatch.
Al di là dei dati e senza entrare nel merito di una questione così complessa, né richiamare decreti e studi forse poco attenti e interessati a chiedersi se il lavoro e la sua stabilità siano un problema solo aziendale o correlato ad altri fattori, ritengo fondamentale affrontare il tema della precarietà, distinguendo il lavoro nella micro/piccola, da quello nelle grandi aziende strutturate o statali. Stabilità e continuità del lavoro, a mio avviso, non sono solo un fattore contrattuale del CCNL di riferimento e un onere dell’imprenditore, ma risentono anche dell’approccio/atteggiamento del lavoratore: quello giovane, che vuole far carriera in grandi aziende; quello meno giovane, più interessato al posto statale.
Una figura formata, strutturata ed integrata in una micro/piccola – dove è chiamata a ricoprire spesso ruoli trasversali ed organizzativi per la politica (spesso, ma non sempre, sbagliata…) del “tutti fanno tutto” – allorché si presta a cambi repentini e si trasferisce in una realtà grande (spesso solo 15 gg di preavviso), non arreca solo un danno all’azienda ma anche a se stessa: ad essere compromessa non è soltanto la continuità dei processi di lavoro della prima ma, spesso, quell’aumento di competenze e crescita professionali che, sempre, dovrebbero essere l’obiettivo principale di ogni percorso lavorativo.
Ed alla ovvia e prevedibile risposta “se va via, si vede che non sta bene”, rispondo sottolineando di parlare da imprenditore che garantisce contratti stabili salari congrui, smart working ed approcci di apertura all’esperienza e alla formazione continue. Ciononostante, viviamo momenti di discontinuità deleteri, dovuti al desiderio di nuove esperienze che, facilmente, sovrasta quella volontà promessa i primi giorni di ingaggio: un atteggiamento fanciullesco di “lascia e prendi” repentino, espressione di un approccio al lavoro figlio del “fluidismo” del momento e del poco attaccamento alla maglia. Ad ognuno le sue responsabilità.


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