Al processo per l’omicidio Diabolik parlano i pentiti: il traffico di droga nella Capitale
Nel processo per l’omicidio di Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, in primo piano le testimonianza di Fabrizio e Simone Capogna, ora collaboratori di giustizia. Uno spaccato del traffico di droga nella Capitale, i rischi dei rapporti tra chi controllava lo spaccio. Fabrizio Capogna, dal mese di ottobre scorso è diventato collaboratore di giustizia insieme a suo fratello Simone, e parla collegato con l’aula bunker di Rebibbia da un sito riservato.
Risponde come testimone assistito alle domande del pm Francesco Cascini, uno dei titolari insieme alla collega Rita Ceraso del procedimento che vede imputato l’argentino Raul Esteban Calderon, accusato di omicidio volontario aggravato dal metodo mafioso e detenzione abusiva di armi, detenuto nel carcere di Larino per l’omicidio di Diabolik, che fu ucciso con un colpo di pistola alla testa il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti a Roma.
“Sentivo la mia vita in pericolo, sapevo di cosa erano capaci- dice -. Conosco lo schifo nel mondo della droga, dove non ci sono amici e non esistono sentimenti”. E’ una lunga testimonianza che ricostruisce i rapporti e i meccanismi delle piazze di spaccio della Capitale dove ha mosso i primi passi giovanissimo, gli “scavalchi” di chi voleva imporsi sugli altri come miglior fornitore, le rapine, i tentativi di sequestro, le minacce anche di morte per gli affari legati alla droga.
Capogna, già alle spalle diversi periodi di detenzione, parte dagli inizi. Nasce “a Tor Bella Monaca nelle piazze di spaccio, per poi diventare narcotrafficante. A 18 anni lavoravo in una piazza di spaccio e sono arrivato ad averne una tutta mia”, ha raccontato davanti ai giudici della Terza Corte di Assise di Roma, elencando i rapporti con personaggi del calibro di Leandro Bennato, Giuseppe Molisso, Lolli – un albanese grosso fornitore con base ad Amsterdam- o della caratura di Elvis Demce: “Non mi piaceva, mi aveva aperto la porta di casa con la vestaglia di seta, voleva fare il padrino, parlava dicendo “A questo gli bruciamo questo”, non mi piaceva”.
Lolli, ha detto Capogna, “offriva il prezzo più vantaggioso per la cocaina, facevamo 100-120 kg al mese, lavoravamo con mezza Roma, da Tor Bella Monaca a Magliana, ho lavorato con tutti”.
Personaggi conosciuti per affari o in carcere. “Giuseppe Molisso lo conoscevo di nome, poi ho condiviso la cella con lui. Eravamo diventati amici e avevamo un bellissimo rapporto”, ha ricordato. Diverso il rapporto con Leandro Bennato. “A Bennato gli davo la droga, dopo è diventato quello che è diventato. Mi aveva proposto di prendere da lui la droga, ma io stavo bene come stavo e allora ha iniziato a fare il prepotente, con insistenze sempre maggiori, mi diceva “Che, fai lavorare l’albanese?”. A me Bennato non è mai piaciuto, io ero un tipo per il business e non per le discussioni”.
Rapporti tesi che sfociano in una rapina che Capogna colloca tra il 2017-2018. “Subisco una rapina di 10 kg di cocaina da parte di tre persone, i fornitori di Molisso e Bennato. A darmi l’appuntamento era stato Renato che mi aveva scritto per avere 15 kg di cocaina e Lolli mi aveva dato l’ok per 10 kg. Renato allora è venuto sotto casa mia a Ponte Mammolo e – ha spiegato il collaboratore di giustizia – ci siamo accordati sulla consegna. All’appuntamento a Casal Lombroso mi sono portato anche mio fratello Simone: Renato non c’era però, ho trovato Aldo e altri due: è arrivato il corriere, è entrato in casa e mi ha dato i 10 kg di cocaina, ma mentre aprivano i pacchi con la droga hanno tirato fuori le armi, un Ak47, una pistola e un coltello. Mi hanno detto che non ce l’avevano con me ma con Lolli che aveva fatto uno “scavalco”. Io e mio fratello a quel punto siamo andati via, e loro hanno portato via cocaina e soldi. Quando ho raccontato tutto a Lolli abbiamo discusso, si parlava di 260mila euro non di mille euro. Poi, quando ho avuto modo poi di parlare con Molisso, mi ha detto che lui non aveva preso una lira anzi si era messo in mezzo per evitare che mi facessero del male”.
Una rapina confermata anche dal fratello di Fabrizio Capogna, Simone. Anche lui collaboratore, nel corso della sua testimonianza racconta: “Molisso diceva che Roma doveva rimanere in mano ai romani”. Nel 2019 il cambio di fornitore. “Mi sono messo in società con un altro soggetto (al momento latitante), facevamo anche 50 kg a settimana. Lui oltre a me riforniva – ha ricordato collegato con l’aula bunker di Rebibbia – anche Bennato, lavorava con i pachistani, con Fabietti, e con Dorian Petoku che conosceva Piscitelli, era molto amico suo tanto che lui e un’altra persona picchiarono Calderon in carcere. Io non conoscevo Raul, non mi sono impicciato”.
Nella sua testimonianza, Simone Capogna ha spiegato di aver saputo come i rapporti tra suo cugino, Petoku, altri della cerchia vicina a Piscitelli e Molisso si erano deteriorati ritenendo “Molisso e Bennato i mandanti dell’omicidio di Diabolik”.
A loro sarebbero state indirizzate delle lettere minatorie in carcere, sempre secondo quanto Capogna avrebbe appreso da uno degli “Irriducibili”. “Molisso non rispose mentre Bennato sì”, ha spiegato. Con Bennato dopo la rapina “non ho più voluto dargli il mio contatto, mentre con Molisso ho continuato ad avere sempre rapporti. Io avevo un telefono skyEcc e encroChat e lì scambiavo messaggi con Molisso, con lui – ha riferito Fabrizio Capogna – avevamo pianificato l’omicidio dei fratelli Costantino che avevano avuto discussione sia con il nipote di Molisso che con mio fratello. Ma io sono stato arrestato prima. Quando c’è stato il tentato omicidio ai danni dei figli del “Verdura” sapevo chi era la mente ma non sapevo chi fosse l’esecutore”, ha raccontato ancora Capogna (per il tentato omicidio dei fratelli Costantino di cui ha parlato sono stati condannati in primo grado Molisso e Calderon, rispettivamente a 14 in ordinario e 12 anni in abbreviato, ndr).
L’epilogo della sua attività e l’inizio della collaborazione di Fabrizio Capogna arrivano dopo un blitz notturno nel settembre scorso, ad opera di sei persone che lo aggrediscono e lo picchiano: “Erano stretti collaboratori di Molisso e Bennato. Volevano portarmi via, e la mia ex compagna vedendo delle sirene aveva gridato “Le guardie, le guardie!”, e loro sono andati via. Avevo paura e ho deciso di collaborare, avevo paura che mi ammazzassero”.
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