Economia

Ai mercati non piace green, la fuga degli investitori

di Giovanni Vasso -


La politica chiacchiera ma, al solito, i mercati fanno di testa loro e adesso, non credono più al green. Nonostante le tonitruanti ingiunzioni di investimento che arrivano da Bce e Fmi, gli investitori fanno ciao-ciao con la manina ai bond e ai fondi che sostengono energia, transizione e progetti “verdi”. I numeri non mentono. E secondo i dati diffusi da Lseg Lipper e rilanciati da Reuters, soltanto tra luglio e settembre, i fondi negoziati per le energie rinnovabili hanno perduto qualcosa come 1,4 miliardi di dollari.

L’indice Standard & Poor’s Global Clean Energy, che racchiude le cento aziende più grandi del settore delle rinnovabili, ha perso quasi un terzo del suo rendimento. Dall’inizio dell’anno fino al 9 ottobre scorso, si è perduto irrimediabilmente il 31,08% del rendimento. Un altro flop è stato l’Etf iShares Global Clean Energy, il cui rendimento s’è depresso del 29,8%. Ma non è un buon momento nemmeno per i titoli dei top player del settore. A cominciare da Orsted, il colosso danese dell’eolico, che a fine agosto ha accusato perdite per quasi il 20 per cento del loro valore. Ciò perché l’azienda ha annunciato di correre il rischio di veder sciupati investimenti per sedici miliardi negli Stati Uniti. A causa dei tassi alti, della fine dei crediti d’imposta e, soprattutto, per colpa dei problemi (e dei rincari) che si stanno registrando nelle catene d’approvvigionamento del settore green e tech. I ritardi e i rincari nella supply chain dell’eolico off-shore, del resto, hanno già convinto Gran Bretagna e Norvegia a soprassedere, almeno per il momento, dai progetti di allestimento di nuove piattaforme energetiche al largo. A tutto detrimento del settore delle rinnovabili. Che perde valore. E agli squali della finanza non piace stare dove questo inizia a mancare, dove i profitti non arrivano. Il pericolo è che scoppi l’ennesima bolla. E che a rimetterci siano, a catena, anche altri settori economici e produttivi.  Già, perché i dati di quest’anno vanno letti insieme a quelli del 2022. A fine dicembre scorso, i fondi Esg avevano accusato già una battuta d’arresto serissima (-20% sul trimestre precedente, -8% sull’anno) che aveva praticamente sancito la fine del rally al rialzo partito nel 2021, praticamente a fine pandemia, quando investire green sui mercati era diventato un must. E non certo per questioni ideologiche o ambientaliste ma per mere ragioni di profitto.

Insomma, la finanza, a differenza dei cittadini alle prese con auto da cambiare e case da riparare, fa quello che vuole e se ne frega degli alti moniti delle organizzazioni transnazionali. A cominciare da quello lanciato, poche settimane fa, dalla governatrice della Bce, Christine Lagarde. Che al summit Iea di Parigi aveva tuonato: “La transizione verde è una sfida politica particolarmente difficile, perché la posta in gioco, in caso di fallimento, è molto alta e tuttavia il percorso verso il successo è così complesso. Ma la risposta è portare a termine la transizione, il che significa comprendere le sfide che comporta e garantire che i costi siano ripartiti equamente. È necessario fare di più per promuovere il mercato della finanza verde, il che ridurrebbe i premi di rischio e contribuirebbe a ridurre i costi di finanziamento”. L’Fmi ha dato grande risonanza all’acquisto, da parte della Banca centrale del Marocco, di bond green per 200 milioni di euro. La speranza è che qualcuno ne segua l’esempio. Subito dopo, Fmi e Stati Uniti hanno accordato a Rabat una mano d’aiuto per risollevare il Paese dal catastrofico terremoto che, nelle scorse settimane, ha messo in ginocchio il Maghreb.

Parole buone per conquistare un titolo di giornale ma, di sicuro, poco efficaci per convincere fondi e speculatori a impegnarsi nel settore. La teologia, persino di quella green, non appassiona i mercati.


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