Attualità

Agricoltura al palo: calo produzione e rischio dazi Usa

di Angelo Vitale -


Agricoltura al palo, il futuro non è roseo: la volatilità dei prezzi delle commodity agricole è diventata “la norma” e si è triplicata rispetto all’ultimo decennio del Novecento, un fattore che non gioca a favore dei produttori e nemmeno dei consumatori. E’ questo il primo impatto raccontato dallo studio Nomisma per Cia sulle competitività dell’agricoltura che vive da un ventennio una crisi che ha condotto metà delle aziende agricole a uscire dal settore (-53%).

il comparto tiene pure se con difficoltà riguardo alla superficie coltivata (-5%), portando così le dimensioni medie delle aziende agricole italiane un po’ più vicine a quelle europee (11 ettari vs 17 ettari di media Ue). Tra il 2000 e il 2020, tra le 1,3 milioni di aziende che hanno chiuso i battenti, 3 su 4 erano situate in aree collinari e montane (circa 936 mila) provocando la riduzione di 850mila ettari di superficie agricola coltivata aggravando lo spopolamento delle aree interne.

L’auspicio sarebbe la maturazione della redditività ma l’Italia, pur rappresentando la seconda “potenza agricola” dell’Unione europea per valore aggiunto generato, negli ultimi cinque anni è cresciuta a rilento, + 24% contro una media Ue del 41% e in affanno rispetto a Spagna e Germania che viaggiano al di sopra del +45%.

Una crescita al lumicino anche in confronto agli altri settori dell’economia italiana: tra il 2015 e il 2023, al netto dell’inflazione, il valore aggiunto nel settore primario è diminuito di quasi 9 punti percentuali, mentre nell’industria alimentare -dopo il calo legato alla pandemia – è arrivato a +12%, nel commercio a +19%, contro una media dell’intera economia italiana che ha registrato una variazione del +11%.

Nell’ambito di questa riduzione del valore aggiunto e della produzione agricola, a soffrire sono le regioni del Centro (-10%) e del Sud (-7%). Calano la produzione di grano duro, scesa del 30% nel Mezzogiorno, come per l’uva da vino. Al Nord diminuiscono quelle del mais e per pesche e pere addirittura del -50%, solamente il latte tiene. Causa della crisi i cambiamenti climatici: deficit idrico al Sud (specie in Sicilia) e alluvioni al Nord.

Una sofferenza generalizzata che colpisce la bilancia commerciale del Paese. L’export agroalimentare è cresciuto nell’ultimo decennio (+87%) come le importazioni (+52%), generando per sette volte un deficit commerciale, sui dieci anni considerati. Ciò perché ci autoapprovvigioniamo per molti prodotti e filiere al di sotto dell’autosufficienza: dal grano duro all’olio d’oliva, dalla carne bovina al mais, da quella suina al frumento tenero. Un caso per tutti, le filiere della pasta e quella mangimistica ormai dipendenti dall’estero.

In questo scenario diminuiscono i consumi alimentari, ancora al di sotto di quello prepandemico (242,3 miliardi di euro nel 2023 contro i 252,2 del 2019, al netto dell’inflazione). E calano quelli fuori-casa (da 87,5 miliardi di euro del 2019 a 81,5 miliardi del 2023) evidenziando una persistente situazione critica delle famiglie, tanto che le vendite al dettaglio di prodotti alimentari per i primi 9 mesi del 2024 come nel 2023 e nel 2022 crescono per la spesa a valore (+1,3%) ma non per i volumi di acquisto (-1%), negativizzando il clima di fiducia dei consumatori italiani.

Una speranza potrebbe arrivare dai mercati esteri ma le incognite non mancano. Prima fra tutte, la minaccia di nuovi dazi da parte della nuova presidenza Usa. Il rischio, da possibili dazi aggiuntivi sui prodotti agroalimentari italiani come accadde nel 2020, oltre che per quelli che Trump potrà imporre a Paesi che per noi ricoprono un ruolo importante come mercato di sbocco.


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