A perdifiato nel paradiso delle Ennedi tra rocce, pitture rupestri e labirinti naturali
C’è una fascia di jungla, di deserto, di antico oceano o di montagna nel cuore dell’Africa, ai piedi del deserto del Sahara, all’estremo nord delle regioni verdi centrafricane. Si tratta dell’altopiano delle Ennedi, regione nella quale, per un breve periodo di tempo, si è svolta una gara estrema di Ultratrail guidati dal GPS. Ora, a causa dell’instabilità politica e della lontananza da tutto, quel fazzoletto di terra è tornato ad essere pressoché irraggiungibile.
Dopo due giorni di viaggio in jeep da N’Djamena, capitale del Ciad, attraversando prima villaggi e zone dalla vegetazione lussureggiante, si inizia pian piano a salire di quota e a vedere come la vegetazione diventa sempre più rada, fino a lasciare spazio al deserto. Nella sabbia, tra le dune si intravedono le carcasse della guerra che scosse il Ciad e la Libia alla fine degli anni ottanta. Dilaniate prima dal fuoco dei cannoni e poi spolpate di ogni elemento che potesse essere riciclato, giacciono lì a vegliare le piste millenarie e da monito per chi si sta addentrando in questo territorio. Tutto d’un tratto iniziano ad apparire campanili di roccia, guglie e formazioni che ricordano le linee ardite della Sagrada Família, che spuntano, mosse da una forza brutale e ignota dal mare di sabbia dorata. Lunghe dita affusolate che escono dalle onde di sabbia, per poi piombare nuovamente al suolo, accasciandosi in un pugno chiuso. Altre resistono, non cadono, ma si flettono in archi, mezzi archi e creano volte che sembrano voler sfidare l’inventiva dell’architetto più ardito.
Viene da chiedersi se millenni addietro fosse stata l’acqua e poi la sabbia a modellare l’arenaria, oppure se queste rocce avessero davvero vita propria.
Una foresta di roccia tra le dune del deserto. Pericolosissimo addentrarsi: nelle fonde gole i nostri satelliti non arrivano, e può orientarci solo la conoscenza ancestrale dei nomadi di queste terre.
Si dice che proprio in queste zone abbia avuto origine la favola di Alì Babà e dei quaranta ladroni, con la leggendaria caverna piena di ricchezze. Molte grotte si aprono lungo i fianchi di questi esseri di roccia, nascondendo spesso inestimabili tesori.
Vige ancora l’usanza dei nomadi di lasciare utensili, materassi ma anche indicazioni per il viandante. Si vedono vasi in argilla, ma anche in ceramica e in plastica. Diverse espressioni della medesima funzione nei secoli, anzi nei millenni, e tesori con il valore della vita per chi si trova a fronteggiare le sabbie dal fascino ostile. Sulla volta di queste grotte, apparentemente segrete ma casa di una notte per pastori e briganti del deserto, pitture rupestri raffigurano cavalli, animali e una vegetazione che le riporta all’epoca preistorica, custodite dall’ombra e dalle sabbie ostili. Tra grotte, dune, architetture di roccia plastica si aprono piccoli giardini verdi, dove si raccoglie l’acqua non in oasi ma in pozze dove l’acqua piovana si raccoglie e resiste, grazie al microclima che si crea in questi labirinti. Qui vive ancora qualche esemplare di coccodrillo del deserto, gli ultimi non ancora estinti: piccoli dinosauri anfibi che vegliano le pozze di acqua fangosa, fonte di vita o di morte per gli animali che la cercano per trovare conforto.
Tre giorni di corsa, in solitudine tra labirinti, spazi aperti e macchie verdi. Punti di approvvigionamento in tende di beduini. Scruto le sabbie dall’oblò, seduto su una scomoda panca di ferro, nella stiva di un vecchio C 130 militare e il pensiero è che l’unico modo per salvare qualcosa dall’uomo e far si che non la conosca.
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