Il giullare tra comico, poesia e volgarità
di MICHELE ENRICO MONTESANO
“Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse:
“Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!”.
(…) E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
ché voler ciò udire è bassa voglia”.
Con questi versi Dante nel XXX canto dell’Inferno commenta la rissa tra Sinone e Mastro Adamo.
Due falsari, il primo di parola e il secondo di moneta. Rissa a cui Dante prese parte come mero spettatore.
Incantato quasi, strappato a quell’ipnotica visione solo dalle parole di condanna del suo maestro.
Come a stigmatizzare un genere di poesia, quella comica, che Dante conosceva bene (si pensi alla Tenzone con Forese Donati).
Il genere comico indiscutibilmente suscita un certo interesse. Una rissa, fisica o verbale, crea sempre un pubblico, la volgarità intrattiene. Il termine volgare deriva da vulgus “popolo”, parola che abbraccia una pluralità manifesta.
Così come Dante si perdeva tra le bassezze dell’animo umano, il mimo giullaresco medievale, privo di astrazioni intellettuali, si contentava della sua bassura. Questo genere mirava a una sola cosa: il riso. Dei pochi testi del mimo romanzo sopravvissuti emerge quanto fosse povera, insufficiente, dubitativa la nozione etica del pubblico a cui il giullare, interprete di questo genere, si rivolgeva.
Frate Sbereta, uno dei monologhi giullareschi del ‘300 di cui siamo a conoscenza narra le avventure di questo Frate che chiede amore a tutte le sue penitenti.
La ballata è ricca di oscenità, con toni comici grassi e rudi. Così sono tutti gli altri testi pervenuti, dal Lamento della sposa padovana al Sriventese del Maestro di tutte le Arti.
I giullari erano spesso traduttori e divulgatori delle forme auliche di poesia fra il popolo, traducevano con linguaggi comici, in mimo, ogni forma poetica di cui venivano a conoscenza.
La parola, cedeva il passo al gesto e la narrazione epica perdeva di efficacia recitata mimicamente.
Si traducevano le laudi, le cantilene e perfino il rito liturgico si esteriorizzava.
La società medievale stava cambiando per avvicinarsi e comprendere meglio gusti più semplici e popolari.
A capeggiare questo cambiamento e adattamento ai nuovi gusti collettivi v’era il giullare.
Una figura complessa e istrionica, cantore, mimo, suonatore e danzatore. Perennemente girovago, di corte in corte. Viveva per la baldoria, costretto a stare e legittimare la sua esistenza solo all’interno di occasioni festive. Mutevole trasformista, quasi diabolico.
Alcuino Albino scriveva “Spectacula et diabolica figmenta. Nescit hom, qui Histriones, Mimos et Saltatores introducit in domum suam, quam magna eos immundorum sequitur turba Spirituum”.
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