Navalny, Assange e le regole del gioco
di FRANCESCO DA RIVA GRECHI
La morte di Aleksej Navalny ha sconvolto tutto l’occidente, ovunque la dignità di un uomo ha un senso che nessuno deve poter calpestare, soprattutto con l’omicidio, politico. Navalny era un oppositore politico di Vladimir Putin, aveva fondato un partito. L’omicidio di Navalny quindi è di Stato e la struttura del fatto è bilaterale: il tiranno da una parte, l’uomo, in rivolta per la sua libertà e per esercitare i suoi diritti civili e politici, dall’altra. Il paragone con l’altra persecuzione che indigna l’occidente, quella di Julian Assange, per così dire, salta agli occhi, libertà verità e democrazia o ci sono oppure non ci sono, non si possono dare part-time. Cinicamente, sembra di poter sintetizzare che la storia di Aleksej Navalnyj sia quella della detenzione in un “campo”, quella di Julian Assange quella di un processo infinito che si svolge in apparenza secondo le regole del gioco democratico ma secondo una struttura trilaterale: “oppressore, oppresso, invisibili”. Ci sono quindi “destinatari” del messaggio che la democrazia vuole dare, trattando in questo modo un libero giornalista, diversi dai sommersi senza speranza dello stato totalitario ma che sono obbligati a restare al di sotto della loro dignità, per un’interesse “superiore” che in democrazia ha lo stesso valore che nelle dittature: la guerra. In guerra il nemico è sempre invisibile, in ogni guerra, anche se a combattere è una democrazia. La dittatura è sempre in guerra, perché vive di violenza e deve sopprimere la vita che non riesce a piegare, come quella di Navalny. Come scrive Giorgio Agamben, e prima di lui Hannah Arendt, a proposito del totalitarismo, domina l’eccezione, non la regola, per questo il tiranno può e deve uccidere. Nello stato di eccezione permanente della dittatura russa, nel campo, nessun individuo può essere “normale” e dunque umano, nel senso di ritenersi libero di rispondere anzitutto alla propria coscienza. Julian Assange, invece, non può morire, perché nelle democrazie la regola è che l’opinione pubblica sia viva e non tollera di morire anch’essa. In tempo di guerra o nelle strutture dove la guerra si prepara, invece, anche in democrazia, la regola cambia, e si apre lo stato d’eccezione e il consenso deve seguire procedure eccezionali perché funzionale alla guerra. Assange non è solo un giornalista, come si autodescrive in un misero cartello e come ne parla la moglie, è un oppositore della guerra, che si è posto come nemico dei militari americani, dei quali tuttavia non ha rispettato le regole. Per questo, la sanzione richiesta è di 175 anni, pari alla morte civile, perché, come disse Stefano Massini a proposito di Anna Politkovskaja, gli oppressi e gli invisibili, se si ribellano, se vogliono apertamente dissentire dalla “guerra”, sotto qualsiasi regime, maggioranza, o governo, non sono mai “rieducabili”. Non esiste pena che nell’ambito della sua funzione rieducativa, come si vanta la nostra Costituzione democratica, possa infliggersi a coloro che si oppongono davvero alla guerra. Lo Stato, come diceva Hobbes, serve proprio per regolare l’uso della forza e non può rinunciare alla guerra. In occidente, soprattutto negli Stati Uniti, sotto questo profilo, è come nelle “autarchie” orientali, che hanno il potere di vita o di morte, sui propri sudditi che considerano traditori.
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