L’ANALISI – Il Pd, le europee e il fuoco amico
di EDOARDO GREBLO E LUCA TADDIO
Il Pd, le europee e il fuoco amico.
Le bordate di “fuoco amico” indirizzate con significativa frequenza alle iniziative della segretaria, anche da parte delle sue componenti interne (De Luca docet), trova nella destra una comoda sponda. Se infatti il Pd dovesse rinunciare al ruolo egemonico acquisito nel campo dell’opposizione, la coalizione di governo non avrebbe più rivali politici in grado di spodestarla. Un’alternativa guidata dal Movimento 5 Stelle sarebbe condannata a un’opposizione fine a se stessa, una proposta elettorale che fosse centrata sul Terzo Polo risulterebbe priva del necessario sostegno popolare e sarebbe inevitabilmente minoritaria.
Sembra perciò evidente che al Pd spetti il compito di sintetizzare in un coerente programma politico queste diverse istanze: crescita, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze. Perché, nonostante la storia e la sua tradizione, il partito non è stato finora in grado di presentarsi come la sola forza politica capace di coniugare queste istanze e di offrire un messaggio unificante e comprensivo a un Paese sempre più diviso tra lobby e corporazioni, che ne accentuano divisioni e disuguaglianze? La risposta è sia nella storia sia nella prospettiva.
Se guardiamo al recente passato, il Pd si è rivelato capace di gestire in modo attento e responsabile la politica macroeconomica negli anni che intercorrono tra la crisi del debito sovrano allo choc della pandemia. Non è però riuscito a far uscire il Paese dalla stagnazione in cui versa da anni e a ridurre in modo significativo le disuguaglianze (anche perché ha sempre fatto parte di governi di coalizione). Ed è questo, in prospettiva, il fattore che ha deluso molti dei suoi potenziali elettori e che ostacola la possibilità di recuperare così il terreno perduto tra i ceti popolari e i giovani. Il Pd è stato, in buona sostanza, molto più moderato e molto meno socialdemocratico di quanto i suoi elettori si aspettavano. In particolare, si è rivelato poco sensibile a un tema che pure aveva elencato tra le sue priorità, la lotta alle disuguaglianze. La politica dei due tempi, per cui prima si agisce in modo responsabile quando si governa in un periodo economico difficile e poi ci si concentra sulla riduzione delle disuguaglianze, non si sta, cioè, rivelando elettoralmente pagante.
Occorre perciò, in questo senso, recuperare la stella polare che ha guidato il socialismo riformista e liberale nel corso della sua storia, ovvero il principio di eguaglianza, inteso come eguaglianza sostanziale, senza però ricadere nell’egualitarismo vecchio stampo che tanti danni ha fatto alla sinistra. Per continuare a essere protagonista, e non semplice spettatore dei giganteschi processi di trasformazione in corso rappresentati dalla sfida digitale e dalla crisi climatica, il Pd non può fare a meno di prendere di petto la sfida dell’eguaglianza – nell’eguale diritto alle cure, all’istruzione, al lavoro decente – nell’impegno volto a rendere “più eguali i diseguali”. È intorno a questo ideale che il Pd dovrebbe impostare una strategia di lungo respiro, capace di definire obiettivi realistici e tenendo conto delle condizioni date. Non è detto che sia facile, ma la difficoltà nasce proprio dal fatto che le identità sono deboli, per cui prevale l’idea che le alleanze elettorali siano anche traducibili in alleanze politiche. Non è perciò inopportuno ricordare quanto scriveva Norberto Bobbio rivolgendosi ai comunisti negli anni ’70: “Vi interrogate sul vostro destino e non capite che dipende dalla vostra natura. Risolvete la vostra natura e avrete risolto il vostro destino”. Vale anche per il Pd.
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