L’ANALISI – Partito Democratico ed Europee, quale destino
di EDOARDO GREBLO E LUCA TADDIO
Quale sarà il destino di quello che è stato il maggior partito della sinistra in questi ultimi anni, ovvero il Partito Democratico? Un partito in cui la questione di una eventuale candidatura alle elezioni europee di giugno 2024 da parte della segretaria, Elly Schlein, sembra monopolizzare il dibattito, quando invece la posta in gioco è di ben altra portata e riguarda l’identità stessa del partito, che sin dalla sua nascita ha oscillato tra due prospettive non esattamente compatibili.
La prima è stata quella del partito a vocazione maggioritaria delle origini, di un partito pensato non tanto in termini di rappresentanza parziale di settori più o meno ampi della società, ma inteso come una grande forza nazionale. Si è trattato di un progetto ispirato al modello americano del partito “big tent”, la grande tenda sotto la quale convivono sensibilità diverse, e che prevedeva l’elezione del leader nazionale tramite primarie aperte e la sua naturale candidatura al ruolo di Presidente del Consiglio.
Un progetto a cui, però, è sempre mancato un presupposto fondamentale: un modello elettorale sulla scorta di quello anglo-americano o, anche, francese, in cui si è oramai da decenni consolidato un sistema bipartitico dove sono le regole elettorali, quali il turno unico e i collegi uninominali, a rendere pressoché inevitabile la candidatura a Premier del segretario del partito vincente. Ma in Paesi in cui prevale il pluripartitismo e i governi sono di coalizione, questa ipotesi non ha molto senso, dal momento che i ruoli di segretario e di premier sono diversi, e prevede che il bipolarismo si trasformi, prima o poi, in bipartitismo.
Le elezioni europee, com’è noto, prevedono un sistema elettorale proporzionale, per cui tutti i partiti della “non-destra” conducono una battaglia politica in chiave concorrenziale allo scopo di conquistare una posizione di forza rispetto ai potenziali alleati. Come le cronache politiche testimoniano quotidianamente, ciò alimenta uno scontro fratricida tra le forze di opposizione. Ma questo non significa che il Pd debba rinunciare a definire con chiarezza la propria identità e la proposta politica che ne deriva. Una proposta che nasce da un’altra vocazione, quella legata all’appartenenza alla grande famiglia del socialismo europeo, nonostante lo scarso appeal che la parola “socialismo” riscuote nel partito. Non a caso, la forza politica che viene attualmente percepita più di “sinistra” è rappresentata dai Cinque Stelle guidati da Giuseppe Conte.
Prima ancora di pensare alle alleanze, il Pd dovrebbe perciò inserire il suo progetto identitario nella cornice del socialismo europeo, ovvero di quella corrente riformista che intende recuperare le ragioni del compromesso storico tra capitale e lavoro, tra democrazia e mercato, tra libertà ed eguaglianza. Si tratta di una prospettiva in grado di promuovere una linea di condotta ispirata a un programma culturale e d’azione alternativo a quello regressivo, quando non apertamente reazionario, del conservatorismo sovranista di certa sinistra e dei neonazionalismi propri della destra.
Si tratterebbe, pertanto, di lasciar cadere una volta per tutte il progetto di tipo adattivo volto al governo dell’esistente a cui il Pd ha aderito troppo a lungo e che ha spinto molti a identificarlo con l’establishment, col partito dei già garantiti e dei già tutelati. Il Pd dovrebbe cessare di essere una forza tecnocratica in grado di fornire soluzioni amministrative ma incapace di proporre ricette politiche diverse da quelle volte alla gestione dello status quo, per diventare una forza di cambiamento in senso democratico e progressista, una forza tesa ad affrontare la società nel suo lato più conflittuale, oggi quantomai evidente nella crescita delle diseguaglianze e delle asimmetrie tra inclusi ed esclusi.
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