PRIMA PAGINA – Beniamino e Ilaria, quei silenzi sui diritti calpestati
Se le catene mani e piedi di Ilaria Salis valgono più di quelle che hanno stritolato un innocente in carcere per 32 anni, allora inutile tentare di comprendere il perché gli italiani, ormai, non credono più nella giustizia. Perché se la sinistra si batte il petto per i diritti dell’antifascista a processo in Ungheria e non spende una parola sul povero Beniamino Zuncheddu, incastrato dalla giustizia e sbattuto ingiustamente in una cella da giudici che nel mentre hanno fatto carriera, allora la questione non è tanto l’allarme sulle intercettazioni e l’abuso d’ufficio, ma le basi di un diritto che ormai fa paura ai cittadini.
Che guardano a quel pastore del Sinnai, privato di un futuro con prove artefatte e testimonianze false, e prendono coscienza che in un Paese democratico non basta condurre un’esistenza sulla via della legalità, perché il confine che separa la libertà dal cancello di un penitenziario si chiama fortuna. La fortuna di non trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, di non essere nominati da indagati intercettati al telefono, di non finire indagati per qualsivoglia motivo, che poi il calvario della giustizia è lungo, in una gogna che dura anni durante i quali soffrono intere famiglie, che giorno dopo giorno sopravvivono nella speranza che il giudice non commetta uno dei tanti errori che, nel nostro Paese, vanno a ingrossare le fila dell’ingiusta detenzione, certificata da numeri che, nel solo 2022, hanno registrato 539 persone incarcerate ingiustamente, con risarcimenti danni liquidati per oltre 27 milioni di euro.
Una realtà davanti alla quale la politica dovrebbe unirsi sotto una stessa bandiera, perché la riforma della giustizia sia una vittoria di tutti. Per le sofferenze di Beniamino Zuncheddu, per i diritti negati di Ilaria Salis, per un politico che per una firma viene sbattuto come un mostro in prima pagina, in barba al più elementare principio della presunzione d’innocenza, da tempo ormai sostituito con la presunzione di colpevolezza fin dall’emissione dell’avviso di garanzia.
Cos’è successo alla culla del diritto romano se il dibattito della propaganda continua a concentrasi sul gioco delle parti degli iper manettari contro i garantisti, che tirano da una parte all’altra una coperta così corta che non è più in grado di coprire la responsabilità dei magistrati che sbagliano e che non pagano mai, né quando si accaniscono contro gli innocenti né quando garantiscono l’impunità ai criminali veri. Questioni da massimi sistemi, che serpeggiano nelle menti di coloro che, guardando la sofferenza di Zuncheddu, non si discostano dall’assunto che è meglio assolvere un colpevole piuttosto che condannare un innocente.
Questioni troppo complicate e poco propagandistiche per chi, invece, tenta di difendere lo status quo di certa magistratura e preferisce puntare il dito contro un governo che vuole cambiare la piaga giustizialista, ma trova le resistenze di chi grida al bavaglio per non poter spiattellare sui giornali in nomi di persone terze finite casualmente in intercettazioni. I cui diritti valgono zero rispetto alle catene di Ilaria Salis e agli abusi sulla docente milanese finita in galera a Budapest con l’accusa di tentato omicidio, in quanto avrebbe partecipato a un violento pestaggio contro due neonazisti. Non che questo giustifichi le immagini di quelle catene mani e piedi, come nulla ha giustificato con il mondo quella benda stretta sugli occhi di Gabriel Natale Hjorth, l’americano accusato insieme al suo connazionale Finnegan Lee Elder dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega.
Il punto non è la condanna, perché tutti noi condanniamo il trattamento poco dignitoso riservato alla Salis, ma la polemica ha assunto i contorni della propaganda, visto che il caso viene strumentalizzato per attaccare, per vie traverse, il governo Meloni, amico del cattivo Orban. Eppure non è stato profuso lo stesso vigore, che passa dal grido “liberatela e riportatela a casa”, con gli altri 2mila italiani detenuti nelle carceri di tutto il mondo. Né si sono levati gli scudi contro gli Usa, dove le catene e le manette mani e piedi, oltre che la sedia di contenzione per i casi più delicati, sono la normalità. Per info, chiedete a Chico Forti, in carcere a Miami da 23 anni con la speranza dell’estradizione.
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