Africa first
Africa first. In uno scenario di guerre, che l’Occidente non è in grado né di vincere né di chiudere a tavolino, il grande assente Europa è il protagonista del tavolo Italia-Africa. E così il governo italiano scommette sul ruolo di capofila di fronte a una rappresentanza politica del continente più strategico del prossimo futuro alla vigilia di elezioni che devono garantire un cambio di rotta nella politica estera di Bruxelles.
In Italia i commenti si divideranno fra i supporter del governo a tutti i costi e l’opposizione “so tutto io”. Diranno che Meloni ha fallito e gli altri replicheranno che i soldi ci sono. La realtà è che siamo stato noi a creare quell’impeto centripeto che oggi mostra tutti limiti di un continente economico che in tempo di crisi non ha saputo trasformarsi in entità politica. Misura più piccola era ciò che già avevamo visto capitare in Tunisia, quando Ursula von der Leyen era sembrata una parolaia ed è servito un secondo viaggio della presidente della Commissione per far seguire i primi fatti alle parole. E così succede con l’Africa e il Piano Mattei. In questa specie di refrain alla Trump che sembra dirci “Africa first”, cioè in un quadro geopolitico scomposto sembra ricordarci che non esistono più i forti e i deboli ma solo le opportunità.
Eppure il governo italiano insiste nella cosa che finora ha fatto meglio, cambiare le regole ormai stantie di una politica estera che da un decennio sembrava risolversi sempre e solo in un sissignore e che ha esposto l’Italia a una crisi economica che non l’ha vista al tavolo delle vere decisioni nel momento cruciale, quello in cui la guerra in Ucraina apriva la strada a una visione alternativa dell’Europa di domani e della sua proiezione verso Est.
Possono succedere due cose. Che l’Europa interpreti la solitudine italiana come una provocazione e vada a rischiare tutto sul tavolo elettorale. Oppure che come è già capitato con i migranti la fuga in avanti del governo Meloni, con tutti i limiti di questo primo incontro pubblico, faccia prevalere quella parte della diplomazia internazionale che da tempo sente la necessità di un cambio di strategia e cerca di costruire le fondamenta per un ruolo diplomatico europeo sui fronti caldi, quelli militari come quelli economici.
Dal punto di vista pratico, la partita energetica dopo il disastro della guerra in Ucraina ha bisogno di passaggi intermedi se davvero l’Occidente spingerà con forza nella direzione della transizione ecologica.
Ed è ovvio che questo ruolo sta tutto nel Mediterraneo e nella visione rovesciata dei confini storici del continente, che vedono oggi il Nord Europa godere degli effetti dell’ultimo ventennio di sviluppo ma che hanno bisogno di un allargamento a Sud per appoggiare saldamente le democrazie sulle politiche strutturali che possono trovare la sintesi fra lo sviluppo africano in ritardo e la stabilizzazione economico-finanziaria delle classi medie di un continente arrabbiato. Che, altrimenti, rischia di interrompere la propria corsa verso il futuro quando ormai eravamo arrivati al miglio decisivo.
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