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PRIMA PAGINA Il secolo digitale: l’Ai come l’Atomica

di Giovanni Vasso -


Il ‘900 è stato il secolo dell’industria, dell’acciaio, dei motori. Delle macchine e dei motori. Un’era scintillante basata sui progressi mirabolanti della tecnica si prospettò all’Europa della Belle Époque. Che, invece di godersi la pace perpetua, finì a massacrarsi in un’enorme trincea, dal Carso alla Mosella, dalla Turchia fino a Tannenberg. Le macchine diventarono cannoni, spaventosi come la scintillante Grosse Berthe, che seminava morte e distruzione sul fronte franco-tedesco. I motori li misero sugli aeroplani che, all’inizio, sganciarono volantini tricolori su Vienna. E che poi, nel bagno di sangue della Seconda Guerra mondiale che seguì alla malferma pace di Versailles, divennero bombe e quelle bombe, debitamente potenziate, divennero l’Atomica grazie a cui l’America devastò ciò che restava del Giappone, polverizzando Hiroshima e Nagasaki, e divenne la Superpotenza che conosciamo.

Il primo secolo del terzo millennio sarà il secolo dell’informatica, dell’informatizzazione, della digitalizzazione. Dei computer e degli smartphone. Il sogno di una pace perpetua, anche noi, l’abbiamo coltivato ma ci abbiamo rinunciato subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York e, soprattutto, alle conseguenze devastanti che ha avuto sulla vita quotidiana di tutti noi. La paura è diventata una compagna di viaggio e la guerra, non più aperta, ce l’abbiamo avuta in casa. A por-tata di click. Chat, social, web. Un altro luogo, da sogno, dove fuggire dalla realtà crudele. E, invece della Second Life, un altro luogo di perdizione. Ma quello che abbiamo visto finora pare sia ancora nulla. È arrivata l’intelligenza artificiale. E potrebbe essere l’inizio della fine del mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo. Viviamo tempi apocalittici. O meglio,viviamo uno Zeitgeist da fine del mondo.

E i profeti di sventura hanno un’audience sicuramente maggiore rispetto agli altri. Ma non è una questione di punti di vista o di opinioni. Il fatto è serissimo. Talmente serio che persino Sam Altman, padre di ChatGpt, la prima Ai a essere “pubblicata”, ritiene che si debba istituire un’agenzia per l’intelligenza artificiale così comeo si è fatto per l’energia nucleare. Da Davos, dove s’è guadagnato il diritto di tribuna firmandosi l’invenzione potenzialmente più impattante degli ultimi decenni, Altman ha spiegato: “Le istituzioni ragionano sull’approccio migliore per regolare l’Ai prima che diventi troppo potente: ciò è importantissimo, sono qui per dare una spinta affinché accada”. Il primo problema che emerge è legato all’occupazione. Kristalina Georgieva, direttrice generale del Fondo monetario internazionale, ha sentenziato che l’applicazione dell’Ai insidierà il 60% dei posti di lavoro delle economie avanzate e il 26% di quelli nei Paesi in via di sviluppo. Il 40% degli abitanti in età da lavoro del pianeta rischiano di ritrovarsi in mezzo a una strada. Ma questa è solo uno dei problemi del bouquet di interrogativi che l’Ai fa insorgere. Se ne è occupata, tra i primi al mon-do, l’Unione europea. Che ha affrontato, per esempio, i temi della libertà personale e della possibilità della cosiddetta polizia predittiva. In pratica l’Ue ha escluso i“cervelloni” capaci di anticipare i delittiche hanno popolato, per decenni, fumettie letteratura pop.

Poi c’è la vicenda delle fake news o propaganda, che dir si voglia. Gli intrecci tra intelligenza artificiale e politica, la grande paura che basti saper maneggiare meglio degli altri l’algoritmo per disegnare un mondo a proprio uso e consumo. E, soprattutto, per imporlo agli altri. Sam Altman, però, ha detto di non aver dato nemmeno un occhio all’ultima versione dell’Ai Act. Non è certo incoraggiante per Bruxelles che, in mancanza di un campione digitale che potesse, davvero, dare un peso alla Vecchia Europa nella nuova battaglia globale, sperava, come aveva detto il commissario Thierry Breton, di stabilire un benchmark planetario a cui tutti si sarebbero dovuti attenere. Una pia illusione. Almeno allo stato attuale. La battaglia dell’Ai è molto cara a Elon Musk. Che teme l’algoritmo. Ma che, da quando ha iniziato a lavorare alla “sua” intelligenza artificiale di Grok, è diventato meno rigido. E, anzi, a novembre, in un colloquio con il premier britannico Rishi Sunak, ha profetizzato un mondo senza più lavoro in cui si “potrà scegliere” se e cosa fare. A quel punto, però, la sfida sarebbe ancora un’altra. Trovare un senso alla propria esistenza. Non certo la più entusiasmante delle prospettive. Ammesso, e non concesso, che si troverà un modo per sostentare milioni e milioni di nuovi disoccupati esclusi, a forza, da un mondo del lavoro che si rimpicciolirà. Per Bill Gates, che grazie a OpenAi, finanziata da Microsoft, è tornato al centro del ring internazionale (oltre a brindare a guadagni insperati per l’azienda che ha fondato), ci si preoccupa troppo.

Grazie alle tecnologie i medici saranno più performanti, l’agricoltura produrrà come mai prima d’ora. L’importante, secondo il magnate, è che sia in buone mani. Possibilmente le sue, le stesse che hanno imposto Sam Altman di nuovo alla guida di OpenAi dopo la cacciata a causa di Q*, il progetto di Ai superpotente che aveva fatto traballare l’etica dei vecchi consiglieri d’amministrazione della fondazione partecipata da Microsoft. Di fronte alla scelta tra il profitto e la responsabilità, vera o presunta che sia, non c’è stata storia: hanno vinto gli affari. “OpenAi può fermarsi – ha detto ancora Altman passato da“odiatore” a guru di Davos – ma la società non lo farà”. Se non lo facciamo noi, lo faranno gli altri. Ma questo è un altro discorso.


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