Degni, l’abuso politico del potere giudiziario
La letteratura giuridica nordamericana, cinica ma intrisa di cultura democratica, è ormai specializzata nella smascherare i “miti”, le narrazioni fantastiche, con le quali coloro che detengono un potere, ne “velano” l’esercizio, pur legittimo, con delle favole, che convincono, più o meno, i destinatari di tale potere della necessità, giustizia ed opportunità di esso. Fino ad un certo punto. Il caso Degni, magistrato della Corte dei Conti, nella bufera per la sua attività sui social, riporta all’attenzione il mito della “terzietà” ed “imparzialità” del giudice, soprattutto nella versione tradizionale, di colui che non solo è imparziale, ma lo dovrebbe anche apparire. Se questa è la base della credibilità della magistratura c’è proprio da scappare dall’Italia verso qualunque altro paese.
Secondo chi scrive le cose devono essere impostate diversamente.
Gli antichi mores maiorum, effettivamente raccontavano di un giudice che, nell’esercizio delle sue funzioni, come al di fuori di tale esercizio, nella vita sociale e famigliare, mai si sarebbe permesso di professare alcuna opinione o predilezione politica, cambiava ristorante se un politico od una persona rappresentativa di qualsiasi interesse “forte” si sedeva vicino a lui e via dicendo. Nei paesi e nelle piccole città questo riguardava soprattutto il “pretore” del circondario. Si tratta del giudice al quale pensava Piero Calamandrei per la sua Firenze e quindi non necessariamente buono solo per le zone rurali. Sembra incredibile proprio perché oggi ne siamo lontani anni luce. Non sarebbe giusto sostenere che sia colpa dei giudici.
Il punto è che se tutto cambia di pari passo con la società anche un settore così delicato come la giustizia dovrebbe cambiare a cominciare dalle regole relative al fondamento del potere dei giudici. Una legittimazione che si fondi ancora sulla visione di Calamandrei non funziona più e infatti la credibilità della magistratura italiana è ai suoi minimi assoluti. Impossibile non prendere atto che la magistratura un ruolo politico lo ha e lo deve avere ed è puerile far finta che non sia così. Disfunzione deleteria è un ruolo politico che diventa uso politico del potere giudiziario perché non viene regolamentato per ignavia od opportunismo politico. Tale uso è senz’altro un abuso.
L’attività concreta della magistratura si svolge oltre ogni ragionevole previsione costituzionale e deve allora fondarsi su regole di legittimazione nuove. Si parla di elezione dei procuratori distrettuali come negli Stati Uniti e sarebbe una nuova interessante forma di democrazia diretta come il premierato. Una proposta può essere quella di affidare al Parlamento, o ad una sua Commissione, la delibazione delle sentenze che riguardano i parlamentari.
Una volta tolta di mezzo, ai tempi di mani pulite, l’immunità, che pure la costituzione prevedeva, e reso ormai inutile il debole filtro costituito dall’autorizzazione (preventiva) a procedere, meglio sarebbe, a posteriori, anche per scoraggiare inchieste strumentali e perdite di tempo e denaro, che a volte certe procure sprecano senza freni inibitori, ratificare, da parte del Parlamento, le sentenze della magistratura che riguardano i suoi membri eletti o comunque appartenenti ad un corpo politico dello Stato. Se di giustizia politica si tratta, che se ne occupi la politica!
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