Storie

René Higuita, la vida loca es sueño

di Giovanni Vasso -

epa10819098 Former Colombian soccer goalkeeper Rene Higuita poses during the purple carpet of the launch party for Maluma's new album 'Don Juan', in Medellin, Colombia, 24 August 2023. EPA/Luis Eduardo Noriega A.


Dicono tutti che René Higuita sia stata l’ultima, o quantomeno la penultima, rockstar del calcio. Facile parlare degli eccessi. Troppo semplice tirare in ballo l’amicizia con Pablo Escobar e le partitelle a La Catedral, la lunga permanenza in carcere per aver fatto da intermediario e contribuito a liberare una ragazzina dai suoi rapitori, cosa che lo fece incappare nella marcatura strettissima, asfissiante, del procuratore Gustavo de Grieff. Nessuno, però, la racconta fino in fondo. E cioè che lui, ultima epifania dell’alegria del pueblo applicata alla pelota, è stato anche l’uomo che più di ogni altro ha cambiato il ruolo del portiere. Per antonomasia, il più anarchico che ci sia nel calcio.

René Higuita è padre, calcistico, sia del sigfrido glaciale Manuel Neuer, che al Bayern giocava praticamente da libero, che dell’estroso messicano Jorge Campos e lo è stato altrettanto dei portieri goleador come José Luis Chilavert o Rodrigo Ceni. Un’eredità tanto grande quanto negletta, come il gran sogno di un popolo, quello colombiano, che non ne poteva più di una feroce guerra civile e di essere riconosciuto, al mondo, soltanto per gli affari e i boss del narcotraffico e che, grazie a lui e ai suoi compagni (su tutti, l’hermanito Valderrama) trovò di che emozionarsi e gonfiare il petto d’orgoglio. Fu un’avventura stupenda, culminata in Italia ’90 e proseguita fino al barbaro omicidio del povero Andres Escobar a Medellin dopo il flop di Usa ’94. L’irripetibile avventura della magnifica Colombia di Pacho Maturana, di cui René Higuita è stato il protagonista assoluto. Persino quando finì dietro le sbarre.

Ma non è stato solo spettacolo. Lui, Higuita, nipote calcistico di Garrincha, forse il primo, unico, solo e inarrivabile nell’arte di deliziare il pubblico, del gioco per la bellezza del gioco, l’art pour l’art, è responsabile (anche) della mai abbastanza vituperata costruzione dal basso. O se preferite, della liberazione del portiere dall’angusto confine dell’area di rigore. Se ne attribuisce, Higuita, la paternità. E lo fa nella serie documentario che gli ha dedicato Netflix. C’è da comprenderlo, El Loco. Ai pazzi nessuno riconosce alcun merito, al genio che non si prende sul serio, i seriosi non renderanno mai gli onori che merita. Passando di palo in frasca, nelle parole e nell’orgoglio di René Higuita si rintraccia l’amarezza di chi, come Totò, cercava – da gigante del palcoscenico e del cinema – un riconoscimento da parte di chi non avrebbe mai potuto capirlo. Federico Nietzsche non ebbe torto: “quelli che ballavano erano considerati pazzi da quelli che non riuscivano ad ascoltare la musica“. Il mondo va così.

La musica, anzi, la sinfonia di René Higuita è piena di coraggio sfrontato. Che, poi, è il fratello naturale della follia. Di cui i portieri, almeno fino a qualche decennio fa, erano portatori sani. Non era altissimo ma forte e agile come un gatto. Guidava la difesa e, palla al piede, impostava l’azione. Liberandosi dai doveri del ruolo, disimpegnandosi da libero, garantiva alla sua squadra, sia l’Atletico di Medellin che la Colombia, di poter contare su un giocatore in più. Talora arrivava fino all’area avversaria facendo saltare le coronarie ai suoi tifosi. Qualche volta non gli andava bene. Roger Milla, simbolo del Camerun glorioso di Italia ’90, ancora lo ringrazia. I rigori erano cosa sua: sia a pararli che a tirarli. Una sentenza anche su punizione.  

Il sigillo è stato lo Scorpione, eseguito a Wembley, in amichevole contro l’Inghilterra. Dice, René Higuita, che glielo ispirò un bambino mentre girava uno spot pubblicitario. La provò e riprovò, quella mossa, poi decise di eseguirla in campo. Facendola debuttare nel tempio del calcio mondiale. Dove concretizzò qualcosa di impensabile, di indicibile, di inimmaginabile. Realismo magico, in un certo senso. E né ad Aureliano Buendia, forse, sarebbe dispiaciuto il paragone. Lo Scorpione non può fare altrimenti da ciò che è, glielo comanda la sua stessa Natura. Quella di un bambino. C’è sempre un bambino quando di mezzo c’è l’irrazionale bellezza dello sport, che sogna, si meraviglia. E induce gli altri a meravigliarsi e a sognare. La vida, seppur loca come quella di Higuita, è pur sempre un sogno.


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