Economia

Ora Xi fa tremare la gig economy in Cina

di Giovanni Vasso -


La Cina alza la voce e intima agli operatori dell’economia digitale, la cosiddetta gig-economy, di intervenire per migliorare le condizioni di lavoro dei loro dipendenti. Il Ministero dei trasporti cinese ha dato tempo un anno. Trascorso il quale scatteranno sanzioni pesantissime per tutte quelle compagnie che continueranno a non rispettare i diritti base dei lavoratori. La vertenza non è nuova. Anzi. È già da qualche anno che i rapporti tra le società digitali e la loro forza lavoro si sono inaspriti. Il tema è quello di sempre: le paghe sono basse, gli orari sono impossibili. Persino per un Paese con una cultura del lavoro come quella cinese. Che si tratti di consegne a domicilio o di trasporti locali. Al punto che tra i dipendenti delle aziende della gig economy dominante in Cina si sono formati dei sindacati spontanei. Qualcosa che ricorda, da vicino, quanto è già successo, e sta accadendo ancora, anche in Occidente.

Finora la questione è stata demandata alla contrattazione e, soprattutto, alla giurisprudenza. I tribunali cinesi, negli ultimi anni, hanno pronunciato decine di sentenze su casi legati al lavoro per società digitali. La battaglia, però, si combatte anche sulla trincea della comunicazione. Tra chi punta il dito contro le condizioni di lavoro ritenute impossibili e chi, invece, sottolinea che la flessibilità riconosciuta dal tipo di impiego ripagherebbe il gap salariale. Difatti, però, scartabellando le sentenze è emersa una costante. E cioè che la gig economy cinese ama ampliare, a dismisura e senza alcun accordo coi suoi dipendenti o collaboratori, gli orari di lavoro. Qualcosa che ricorda, fin troppo da vicino, quanto è già successo e sta accadendo ancora, in Occidente. Di nuovo. Tutto il mondo, in fondo, è paese.

Adesso, però, la vicenda è passata direttamente nelle mani della politica. Che in Cina conta, a differenza di quanto, invece, accade in Occidente. Jack Ma, fondatore del colosso Alibaba, l’omologo cinese di Amazon, lo ha imparato a sue spese. Xi Jinping ha rispolverato il vecchio concetto della prosperità comune. Si tratta del gongtong fuyu, teorizzato direttamente da Mao Tse Tung. E sembrava superato dalle cose, dalla corsa all’arricchimento personale inaugurata fin dai tempi di Deng Xiaoping. Ma la Cina, in fondo, è pur sempre un Paese comunista. “Noi possiamo consentire ad alcune persone di arricchirsi prima e poi guidare a aiutare gli altri a diventare assieme ricchi”, ha tuonato Xi al Comitato centrale per gli affari finanziari ed economici del Partito comunista cinese. “Ma – ha aggiunto – dobbiamo anche scientificamente stabilire un sistema di politica pubblica che permetta una più giusta distribuzione dei redditi”. A Xi Jinping non bastano i programmi avviati dalle imprese. Non è questione di charity, come si dice in Occidente. E nemmeno di responsabilità sociale. Non solo quello. Il presidente cinese ha legato il suo governo al progetto, preciso, della lotta alla povertà. Pechino vuole far uscire dall’indigenza intere regioni e fasce di popolazione. Ma non da adesso. È una politica che persegue da diversi anni. E che ha portato la Cina a riconoscere alle famiglie più possibilità di accesso ai beni di consumo, alimentando, peraltro, il Pil interno del Paese.


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