Esteri

Israele e Hamas, se i torti non giustificano i mezzi

di Redazione -

epa11053045 Israeli soldiers with their tanks gather at an area near the border with the Gaza Strip, in southern Israel, 02 January 2024. More than 21,800 Palestinians and at least 1,300 Israelis have been killed, according to the Palestinian Health Ministry and the Israel Defense Forces (IDF), since Hamas militants launched an attack against Israel from the Gaza Strip on 07 October, and the Israeli operations in Gaza and the West Bank which followed it. The Israeli military stated that its ground, air, and naval troops are 'continuing to conduct joint combat' across the Gaza Strip. EPA/ABIR SULTAN


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
L’orribile strage compiuta da Hamas il 7 ottobre a danno di civili israeliani inermi ha reso la risposta di Tel Aviv inevitabile: nessuno Stato avrebbe potuto astenersi dall’intraprendere una massiccia reazione militare dopo un evento che ha pochi paragoni in termini di portata, crudeltà, spietatezza e per il terrore che ha gettato su un’intera società.

Cade perciò in errore chi “contestualizza” un atto di tale feroce barbarie ripercorrendo il filo dei torti subiti dai palestinesi in 75 anni di conflitto e mette sotto accusa il “doppio standard” applicato dagli occidentali nei confronti di Israele rispetto al resto del mondo. Ma cade nell’errore opposto chi rimuove dal contesto la politica degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, dove Hamas è assente dal 2007, che viola il principio “terra in cambio di pace” e contribuisce ad alimentare la spirale senza fine dell’odio e della violenza reciproci. Come le atrocità di Hamas non rendono ingiustificata la critica a insediamenti che violano il diritto internazionale, così la politica del fatto compiuto di Israele non rende le azioni di Hamas meno ripugnanti.

L’impostazione militarizzata della politica regionale di Tel Aviv non è una novità, ma la guerra combattuta a Gaza presenta alcune caratteristiche inedite rispetto ai conflitti combattuti in passato. Non c’è una forza di invasione da espellere, nessun territorio da conquistare, nessun dittatore da rovesciare. Tuttavia, a due mesi di distanza, sta emergendo un elenco più o meno chiaro di obiettivi, non sempre però facilmente componibili in un quadro unitario. Israele mira ad annientare definitivamente Hamas, catturando o uccidendo i suoi leader, distruggendone la capacità militare e ponendo fine al suo potere a Gaza.

Cerca il rilascio degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e rimasti in vita, così come i corpi di coloro che sono stati uccisi. Vuole prevenire un altro attacco, in particolare da Hezbollah, la forza organizzata che opera in Libano su procura dell’Iran. Intende conservare il sostegno internazionale, in particolare degli Stati Uniti, e non lasciare che finiscano nel nulla le conquiste diplomatiche raggiunte negli ultimi anni con alcuni Paesi arabi in funzione anti-iraniana. E cerca, infine, di ricostruire la fiducia nelle forze di sicurezza del Paese. Il problema, per Israele, è che alcuni di questi obiettivi sono in contrasto l’uno con l’altro.

È probabile che una campagna militare in grado di ridurre Hamas all’impotenza e capace di ricostruire la fiducia dell’opinione pubblica nell’esercito possa richiedere il prolungamento della guerra al di là di quanto preventivato, ma la carneficina di Gaza potrebbe indurre l’alleato americano ad essere meno indulgente nei confronti di comportamenti che non sarebbero tollerati se messi in atto da qualunque altro governo o esercito.

E sarà difficile ottenere il rilascio degli ostaggi e mantenere la relativa “tolleranza” dei media, dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali senza ridurre la portata delle operazioni militari e, in particolare, senza cominciare a osservare i principi del diritto internazionale umanitario. Tanto più che una campagna esclusivamente militare non sarà di aiuto quando occorrerà trovare una soluzione al problema di chi dovrà governare Gaza a guerra finita. Quando la polvere si sarà depositata su un territorio spaventosamente devastato, Israele avrà bisogno di un partner palestinese che ai suoi occhi risulti affidabile per gestire la Striscia in condizioni di sicurezza.

Ma, affinché ciò accada, non sembra praticabile nessuna delle ipotesi prospettate in questi giorni da analisti e osservatori. Stati Uniti e Unione europea si sono cullati nell’illusione che fosse possibile pensare a una pace senza giustizia, lasciando morire la soluzione “due Stati per due popoli” tra l’illegalità degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, la debolezza dell’Autorità palestinese, il cinismo dei governi mediorientali e l’ipocrisia occidentale. E però, come ha affermato papa Bergoglio, una soluzione che non contempli uno scenario di giustizia non può che portare a “una sconfitta senza vincitori”.


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