La strage dei 200 mila e Biden chiede aiuto a Xi
epa10977855 US President Joe Biden (L) escorts Chinese President Xi Jinping to his car to bid farewell after their talks in the Filoli Estate in Woodside, south of San Francisco, California, USA, 15 November 2023 (issued 16 November 2023). Chinese President Xi and US President Biden on 15 November, had an in-depth exchange of views on strategic and overarching issues critical to the direction of China-US relations and on major issues affecting world peace and development. EPA/XINHUA / LI XUEREN CHINA OUT / UK AND IRELAND OUT / MANDATORY CREDIT EDITORIAL USE ONLY EDITORIAL USE ONLY
Gli Stati Uniti stanno affrontando la più grande emergenza dal Dopoguerra: la crisi del Fentanyl. Così inarrestabile da spingere il presidente Joe Biden a chiedere al Congresso un pacchetto di finanziamenti da 1,55 miliardi di dollari, da destinare alla sanità e alla sicurezza. Una piaga mortale che negli ultimi tre anni ha provocato 200mila decessi e che ora uccide almeno 500 persone al giorno per overdose da oppioidi.
Non solo, Biden è stato costretto a chiedere aiuto a Xi Jinping, affinché il Gigante asiatico collabori con le autorità americane al fine di contrastare le imprese criminali transnazionali cinesi che inondano le strade statunitensi dell’oppiode killer. Pechino, infatti, è parte del problema da quando le prescrizioni del fentanyl, il potente antidolorifico venduto previa regolare ricetta medica, sono state limitate a causa della forte dipendenza generata nei pazienti. Insomma gli Usa, dopo aver fornito senza scrupoli l’oppio ai popoli, tutt’a un tratto hanno chiuso i rubinetti al farmaco, spingendo sempre più americani a rivolgersi al mercato nero.
Adulti, giovanissimi, bianchi e neri: una schiera di tossicodipendenti che compra dagli spacciatori le dosi più letali. Perché è sulla strada che il fentanyl, fornito dai cartelli messicani a un costo elevato, viene “tagliato” con altre droghe più economiche, come la xilazina, un tranquillante utilizzato per sedare gli animali e venduto a sei dollari al chilo sui siti web cinesi. Questo mix, chiamato “tranq dope” o narcotico della tranquillità, provoca effetti devastanti sugli assuntori, ridotti quasi a degli zombie, ed è il responsabile del fiume di decessi che sta funestando ogni angolo dell’America, dove è diventato la principale causa di morte per le persone tra i 18 e i 49 anni, superando addirittura gli incidenti stradali. E la crisi oltreoceano, ora, fa paura anche all’Italia.
Gli inquirenti, che stanno monitorando il fenomeno e le principali piazze di spaccio del nostro Paese, prevedono che il potente narcotico si diffonderà già nel 2024.Gli indicatori dell’imminente diffusione sono alcune operazioni di polizia effettuate nelle ultime settimane. Prima tra tutte, l’arresto della banda del Fentanyl a Piacenza, dove la Guardia di Finanza, in collaborazione con l’Fbi, un paio di settimane fa ha arrestato sette persone. I trafficanti acquistavano nel dark web l’oppioide dalla Cina e poi lo rispedivano negli Stati Uniti ad alcuni complici dell’Ohio, mettendo in atto una triangolazione mirata a eludere i controlli delle autorità americane antidroga sulle merci provenienti dai paesi a rischio.
Ancora prima, a settembre scorso, la “droga degli zombie” è stata sequestrata dalla piazza di Viterbo. La spacciava un nigeriano in un appartamento di via Vicenza, dove la polizia ha sequestrato 78 grammi di fentanyl. Una quantità che può apparire irrisoria, se non fosse che la dose letale dell’oppioide per l’uomo è di soli due milligrammi. Un granello infatti è sufficiente per indurre il coma, l’arresto cardiaco e la morte. A Milano, nel 2019, furono trovate 2mila pasticche e, nello stesso periodo, gli agenti sottrassero agli spacciatori di Desenzano 23 grammi del narcotico. Ed è proprio nel capoluogo lombardo che l’Italia ha registrato la “vittima zero”.
Il primo decesso per fentanyl risale ad aprile 2017, quando un 39enne fu stroncato da un’overdose. Sembrava un decesso da eroina, ma sul corpo non c’erano tracce di droga. Così gli inquirenti disposero accertamenti tossicologici approfonditi e, solo un anno dopo, furono in grado di trovare il killer silenzioso: scoprirono che l’uomo era stato ucciso dal famigerato fentanyl, che il tossicodipendente aveva acquistato su Internet. Stessa trafila per la vittima numero due, un 59enne di Varese morto nel 2018. Casi sporadici e soprattutto precedenti allo scoppio del bubbone americano, la punta dell’iceberg emersa con la pandemia ma dalle radici lontane. Perché la crisi del Fentanyl negli Usa non si è rivelata all’improvviso, ma è il frutto di un ventennio di affari miliardari di Big Pharma. Alla fine degli anni Novanta l’azienda farmaceutica Purdue creò un medicinale miracoloso, l’OxyContin, un oppioide impiegato nella terapia del dolore.
La casa farmaceutica non solo riuscì a ottenere l’approvazione del farmaco dalla Food and Drug Administration, ma anche la dicitura, nel bugiardino, che il metodo di rilascio ritardato dell’ossicodone non produceva assuefazione. Fu così che mise in atto un marketing martellante, reclutò medici allettati a prescrivere l’OxyContin a chiunque e l’affare dilagò tanto che spuntarono come funghi cliniche del dolore, dove i pazienti potevano avere le loro dosi giornaliere. In un cammino verso l’assuefazione che, nei casi più eclatanti, ha portato persone colpite da un semplice mal di schiena ad assumere anche 500 pillole al giorno. Fiutato il business, altri imprenditori si lanciarono sul mercato degli oppioidi e, con il nuovo millennio, arrivò il Fentanyl della Insys Therapeutics. La casa farmaceutica aveva brevettato uno spray sublinguale, approvato per le prescrizioni ai pazienti oncologici in fase terminale, ma con un sistema di frodi, anche alle assicurazioni, l’oppioide fu somministrato su larga scala.
Le cliniche del dolore sembravano sempre più supermercati della droga, dove i tossicodipendenti potevano avere la loro dose senza controlli. Famiglie e medici alzarono le barricate e indagini furono aperte in decine di contee, tanto che i vertici della Insys furono arrestati e la Purdue, prima responsabile della crisi degli oppiodi, a ottobre 2020 si dichiarò colpevole di tre reati federali, patteggiando un risarcimento per 8 miliardi di dollari. Peccato, però, che fosse andata in bancarotta già l’anno prima.
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