Mes-sinscena elettorale
Come in un videogame, i partiti che siamo abituati a vedere schierati fra governo e opposizione acquistano, sul Mes, l’assetto europeo. E si comportano già come faranno alle elezioni. In ordine sparso. Segnando il tracciato del proprio spazio elettorale. Fdi, Lega e M5s. Contro Pd, Iv e Azione. A caccia di voti centristi. Rifugiati nell’area dell’astensione.
Chi si stupisce è poco propenso alla politica. Che l’Italia non potesse firmare il Mes prima del voto europeo era ovvio. Certo non ai grandi opinion maker che sono talmente veloci di pensiero da immaginare che ogni partita politica fra l’Italia di Giorgia Meloni e l’Europa sia un do ut des. Ma chi crede ancora un minimo al ruolo del popolo elettore nelle democrazie sapeva bene che Fratelli d’Italia non poteva certo cambiare idea sul Mes da un giorno all’altro. E soprattutto in solitaria. Creando una vera frattura nel governo, perché il partito del premier non può astenersi di fronte a un voto del genere come invece ha potuto fare Antonio Tajani. E soprattutto lasciando alla Lega di Matteo Salvini campo libero in campagna elettorale per dirsi l’unica forza della destra che ancora nicchia sulla mono-direzione finanziaria dell’Europa. No, Meloni doveva segnare il campo elettorale con chiarezza. E per arrivare, dopo il voto di giugno 2024, all’eventuale ratifica del fondo salvastati c’è bisogno di due cose: poterlo criticare in campagna elettorale, vederlo modificare nelle sue regole di ingaggio appena il nuovo Europarlamento si sarà insediato insieme alla nuova commissione. Terza questione lo spazio politico dei leghisti, che con questo “no” in comune con Fdi si restringe, perché se Meloni e Salvini avessero rotto proprio sul Mes il Capitano avrebbe giocato la carta della coerenza e del no ai veti europei, sapendo bene che anche nell’elettorato di Meloni da quell’orecchio ci sentono benissimo. Forza Italia, invece, si candida a fare la “moderata” popolare europea, astenendosi per non creare una vera frattura nell’esecutivo italiano, ma segnando la prossima campagna elettorale come un dialogo al centro.
Stesso film lo vediamo a sinistra o quel che ne rimane. Elly Schlein schiera il Pd sulla linea di Gentiloni e vota sì. La sua tesi, da mesi, è che l’Italia non possa essere la sola a bloccare la ratifica di un trattato che non comporta la necessità dell’utilizzo. Una tesi che regge a sinistra, salvo per un aspetto. E cioè che viene dal partito che negli ultimi quindici anni dal governo ha sempre e solo ratificato, sottoscritto e attuato le decisioni europee nel nome della responsabilità, parola che ha cresciuto la fama dem nei mondi che contano ma ha perso via via per strada milioni di elettori progressisti delusi da una sinistra poco attenta alla vox populi. Restano Renzi e Calenda, la strana coppia del centro che non nasce mai, anche loro schierati sulla scia di Elly ma con un obiettivo diverso. Intercettare quel voto moderato ostile al populismo delle destre che l’ex rottamatore ritiene in libera uscita da una Forza Italia in crisi di identità dopo la morte di Silvio Berlusconi. E in questo puzzle proporzionale si infila come un panzer Giuseppe Conte, che si schiera per il no, aprendosi a sinistra lo spazio per raccogliere gli arrabbiati, coloro – e sono tanti – che non voteranno mai Meloni ma non considerano oggi il Pd credibile come forza progressista, a partire dalle posizioni su Nato, Europa e guerra.
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