Il “mai più” per la povera Giulia dura un giorno
La lezione di Giulia Cecchettin che dura un giorno. Perché nell’Italia dei “mai più” che succedono “ancora”, la spinta del cambiamento, alimentata dalla partecipazione, non potrà purtroppo segnare cambiamenti epocali in grado di fermare la mano degli assassini delle donne. Nella chiesa di Padova, gremita per l’ultimo saluto alla ragazza diventata simbolo della lotta ai femminicidi, quei funerali solenni hanno scosso le coscienze, commosso il Paese stretto in un unico abbraccio a papà Gino e alla sua famiglia e lanciato un messaggio forte alle nuove generazioni, a quei giovani uomini ai quali Gino ha chiesto di diventare agenti di cambiamento. Un cambiamento che, prima di Giulia, non c’è mai stato, come dimostrano le centinaia di donne ammazzate dai compagni, i cui nomi sono per lo più dimenticati. L’altra Giulia Tramontano con il suo piccolo Thiago in grembo, Marisa Leo, che ha lasciato una bimba picolla, e Chiara Gualzetti, massacrata a 15 anni da un coetaneo. Suo padre Vincenzo, ieri, era in quella chiesa, simulacro del “mai più” che accade “ancora”.
Anche dopo Giulia, visto che nei giorni successivi al delitto Cecchettin altre due donne sono state ammazzate da uomini che dicevano di amarle. E in pochi ricordano i loro nomi, quasi nessuno conosce i sogni e le speranze di Vincenza Angrisano, uccisa dal marito ad Andria davanti ai loro figli di 6 e 11 anni. Così il funerale solenne di Giulia, davanti alle cui immagini in diretta l’Italia si è fermata e ha riflettuto sull’emergenza femminicidi, diventa l’ultima di una lunga serie di cerimonie funebri alle quali ormai siamo assuefatti, senza alcun cinismo ma con una buona dose di oppio dei popoli, narcotizzati con il “mai più” e fiduciosi che sarà l’ultima volta. Però dopo ogni grande tragedia italiana, i buoni propositi della politica e del cambiamento culturale sono durati il tempo del lutto e poi tutto è tornato come prima, in un circolo vizioso che ci porta a piangere sempre le stesse vittime. A voler fare tesoro delle parole e dei moniti di un padre, Gino, che dal pulpito ha dato l’ultimo saluto alla sua Giulia, leggendo una lettera con un contegno esemplare, con parole fin troppo composte, che ci si aspetta da un capo di Stato.
“Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne”, ha detto, sottolineando che “ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione”. E si è rivolto agli uomini, “perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi”. Gino ha poi concluso: “La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto”. Una famiglia, la sua, che scende in campo per portare avanti una battaglia ideologica, strumentalizzata da una politica che, da domani, tornerà a fare quello che ha sempre fatto, a litigare con quella stessa ferocia che oggi condanniamo. Mettendo infine da parte la parola più abusata dalla propaganda di sinistra nelle ultime settimane, quel patriarcato che è calato sull’omicidio di Giulia ma che non vale per la violenza sulle donne degli islamici, di coloro che vivono a casa nostra ma che hanno creato il loro Stato nei territori, che non rispettano le nostre regole e verso i quali la giustizia non è uguale come quando va inflitta agli italiani. Così un giudice è libero di assolvere un musulmano che picchia la moglie, perché è nella loro cultura. Mentre nella nostra resta l’ammirazione verso i patriarchi veri, resta la meraviglia degli italiani per l’incoronazione di Re Carlo d’Inghilterra, mentre ha davanti a sé i suoi figli, che in ginocchio gli promettono di essere suoi sudditi.
Gli stessi italiani che predicano la cultura liberale contro quella patriarcale, ma solo quando conviene. E allora non stupisce la violenza perpetrata verso Gina Lollobrigida, che dopo aver lavorato una vita aveva dirottato la sua eredità a un estraneo alla famiglia che, negli ultimi anni, è stato più figlio di quello naturale. O se si schierano i giudici per interdire una mente eccelsa come quella di Gianni Vattimo, “reo” di aver lasciato i suoi beni all’uomo che amava, anziché ai congiunti. Italia Paese del patriarcato a intermittenza, dove per un giorno tutto cambia affinché nella realtà non cambi mai nulla.
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