Il processo mediatico e quel disagio del maschio
di FRANCESCO DA RIVA GRECHI
Premettendo che le indagini sono ancora nella fase iniziale, s’impone una riflessione sull’assurda violenza che l’Italia ha visto consumarsi, sotto i suoi occhi, in tempo reale e in diretta televisiva, nella tragedia di Giulia e di Filippo, suo ex fidanzato e poi barbaro assassino.
Colpisce come al controllato, pacato, dolore, vissuto dai genitori dei due ragazzi, abbia corrisposto uno scomposto scampanellio di voci ed urla spesso ignoranti, quasi sempre strumentali, a dir poco selvaggiamente irrazionali.
La vendetta del taglione, nell’era dei salotti televisivi, non compete più a coloro che hanno subito la violenza o alla loro famiglia, bensì ai commentatori ed agli ospiti dei talk show, colpiti in misura più o meno “conveniente” dal sacrificio di chi è stato “estratto” nella lotteria della malasorte e quindi nella malagiustizia.
Come il diritto e lo stato hanno (avuto) storicamente il compito di intervenire per sostituire i processi pubblici a quelli privati, così ora s’impone il dovere di sostituire i processi giuridici a quelli mediatici o, quantomeno, di riaffermare il primato dei primi sui secondi.
E se è pur vero che il processo nei Tribunali arriva sempre tardi e che l’intero ordinamento giudiziario con le sanzioni previste, di fronte alla follia criminale che dilaga, ha una deterrenza minima, non può escludersi che di norme bisogna parlare e secondo le norme bisogna agire.
E come in ogni processo penale non ci si deve mai allontanare dal fatto, soprattutto se non solo è violento ma evidentemente è frutto della più tragica pazzia. Una riflessione seria, unica via per evitare la crescita del numero delle vittime, è tenersi lontano dal “vittimismo di massa” e affrontare il vero problema, che consiste nella diffusa incapacità di prevenire e controllare le esplosioni di volontà criminale e i deliri di odio assassino diffusi nella popolazione “maschile”, di tutte le età.
Ad un’evoluzione “formale” delle diverse “leggi sul femminicidio”, a partire dalla n. 119 del 2013, fino alla n. 12 del 2023, passando per l’opportuna legge n. 69 del 2019, sul “codice rosso” e sugli aspetti processualpenalistici del contrasto alla “violenza di genere”, non ha corrisposto un progresso “sostanziale” dei contenuti normativi perché non c’è alcune capacità di cogliere le concrete caratteristiche del reo.
L’essenziale distinzione tra il processo mediatico e il processo giurisdizionale equivale al sofferto discernimento tra la lettura della “Ballata delle madri” di Pier Paolo Pasolini e l’analisi degli aspetti criminali delle personalità degli autori dei femminicidi, tra l’estetica della vittima e il rigore logico con il quale costruire una fattispecie adatta a neutralizzare i colpevoli ed impedir loro di nuocere ulteriormente.
In questa rubrica si ritiene, controcorrente, che il disagio di fondo su cui lavorare è appunto quello “maschile”, in un mondo occidentale che senza neanche aspettare il volgere di una generazione è stato rivoltato completamente a vantaggio del genere femminile e nel contesto di un mondo arabo, africano e soprattutto orientale in cui le donne sono trattate molto diversamente. Si tratta evidentemente di “squilibri” sociali che pesano enormemente sugli equilibri psicologici delle persone che non sono ancora conosciuti e che sono amplificati a dismisura dall’esposizione mediatica.
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