Ci resta solo il banchiere: raddoppiare gli stipendi
Nel Paese delle retribuzioni ferme a trent’anni fa, della bandiera ideologica del salario minimo che, Iddio non voglia, se diventasse legge ancorerebbe verso il basso le paghe di tutti, nel Paese dei sindacati che scendono in piazza a governi alterni, il laburismo diventa roba da banchieri.
Dopo una lunga trattativa, per i bancari è arrivato il rinnovo del contratto nazionale. Ed è già la prima buona notizia. La seconda è addirittura migliore: sono previsti aumenti da 435 euro al mese e un taglio delle ore di lavoro a non più di 37 alla settimana. Insomma, si lavora di meno e si guadagna di più. Una pacchia. I riflettori sono tutti per Carlo Messina, Ceo di Intesa San Paolo, a cui la Fabi ha riconosciuto un ruolo decisivo per il buon esito della trattativa: “Senza la sua fondamentale presa di posizione – ha affermato il segretario del sindacato bancari Lando Maria Sileoni – sarebbe stato molto più complicato raggiungere questo accordo”.
Intesa San Paolo, poi, ha voluto licenziare una nota in cui rivendica a sé (e quindi al suo amministratore delegato) il buon esito della vicenda: “Le novità introdotte, sotto il profilo economico, esprimono la necessaria attenzione verso le persone, in un contesto economico di particolare complessità, e, più in generale, si caratterizzano per la forte valenza sociale, dalla riduzione di orario, nuove misure per pari opportunità e inclusione, fino ai trattamenti migliorativi rispetto a situazioni di difficoltà e altro ancora; a conferma dell’importanza di un quadro normativo all’altezza delle esigenze delle persone, delle aziende e del ruolo delle organizzazioni sindacali, considerate le nuove sfide che la Banca affronterà nei prossimi anni”. Il senso è semplice: bisogna riempire le tasche di chi lavora. Perché gli affari, altrimenti, ne risentono. I dati sono davanti agli occhi di tutti. L’Istat ha riferito che solo nel primo trimestre del 2023, le compravendite immobiliari sono precipitate: -11%. Ma il peggio deve ancora venire se è vero, come ha rivelato Unimpresa, che l’ammontare di prestiti e mutui, a famiglie e imprese, è dimagrito di 64 miliardi di euro. Il messaggio lanciato dalle banche è chiaro. E assomiglia a quei vecchi slogan che, una volta, andavano di moda a sinistra. Lavorare tutti, lavorare meno. E cambiare l’approccio in un Paese in cui, ancora oggi, due milioni di lavoratori ogni anno scelgono volontariamente di dimettersi: la great resignation, in fondo, non è altro che la naturale reazione a datori di lavoro sparagnini, quelli che, per intendersi, hanno tenuto le paghe italiane bloccate da trent’anni. Una svolta, dunque, è fondamentale per rilanciare l’economia. E questa volta le imprese non hanno scuse. Perché il governo ha messo in campo due misure che possono irrobustire le paghe dei dipendenti e, contemporaneamente, dare sicurezze alle aziende. La prima riguarda il taglio del cuneo fiscale. La seconda, invece, afferisce all’allargamento del concordato fiscale. Con la possibilità di dialogare con l’Erario, di addivenire ad accordi “bloccati”, gli imprenditori possono programmare con maggior tranquillità le loro decisioni e strategie. Nella consapevolezza che i lavoratori più qualificati non stanno più fermi ad aspettare, si muovono e, come riferisce una ricerca di Cisl Lombardia, non si fanno problemi a lasciare ambienti di lavoro in cui non si sentono valorizzati. Né economicamente né professionalmente. Se svolta sarà, lo dirà il tempo. Intanto c’è da registrare che il laburismo, in Italia, è diventato roba da banchieri. Che, con una sola mossa, hanno dimostrato che la contrattazione vera, non quella dei contratti a cinque-sei euro l’ora sottoscritti dai sindacati quanto meno distratti, piccoli e grandi che siano, ha ancora una sua funzione decisiva. E che i problemi si risolvono coi fatti, irrobustendo le paghe per esempio, non alzando bandiere ideologiche che, alla prova dei fatti, rischierebbero di non avere alcun effetto pratico se non quello di abbassare la paga di tutti.
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