Attualità

IN GIUSTIZIA – I processi infiniti e la riforma in due mosse

di Redazione -


di FRANCESCO DA RIVA GRECHI

Il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo, il 13 novembre scorso, in via Giulia a Roma, come i suoi predecessori, invita la Presidente del Consiglio e chiama a raccolta anche l’intera squadra dei procuratori distrettuali e questa è una prima assoluta. L’intelligenza istituzionale del vertice della magistratura inquirente e di Giorgia Meloni, che iniziò a fare politica per onorare il sacrificio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, ha voluto che si discutesse di convergenze, patti e risultati concreti anziché di scioperi, carriere e scontri ideologici.
Giorgia Meloni si presenta all’incontro come la titolare del governo del paese che esporta nel mondo le vittorie dei procuratori antimafia, anziché la criminalità e che quelli dei magistrati sono successi da condividere con tutto il popolo italiano e soprattutto con tutti i servitori dello Stato.
Con riferimento a costoro, si erano da pochi giorni depositate, dalla Corte Suprema di Cassazione, le motivazioni e dunque la sentenza integrale, n. 45506 del 2023, sulla trattativa Stato-Mafia che assolve “perché il fatto non sussiste” l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Urto e gli ex vertici del Ros, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni.
Vi si legge, a pag. 72: “Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato ai fatti oggetto dell’imputazione.
Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”.
Si è già parlato, in questa rubrica, di Ilaria Cavo e del suo libro sugli errori giudiziari e se ne ricorderà una delle tesi principali: «Dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo deriva il principio dell’efficienza processuale» ovvero bisogna fare in modo che non sia avviata «nessuna attività processuale inutile». “Certi errori, senza l’ostinazione nel portare avanti determinate accuse, si sarebbero potuti evitare e le vite di queste persone sorprendentemente comuni avrebbero potuto continuare a scorrere serenamente nella giusta direzione, senza incepparsi o cominciare a girare al contrario”.
La morale è che sia un Senatore, o che sia l’imputato comune, il sistema genera cortocircuiti sempre allo stesso modo. E anche la spiegazione non può che essere sempre la stessa: l’utilizzo del potere giurisdizionale per finalità che non sono consone ad un processo “giusto” e di “ragionevole durata” e il compimento di attività processuali che, su vasta scala, non sono concentrate, come dovrebbero, sui fatti oggetto di imputazione, bensì su teoremi, di volta in volta, storiografici, politici o sociologici.
La conclusione è che lo Stato e la magistratura vincono e la politica ne gioisce quando i processi sono puntuali e focalizzati sui fatti concreti. Diversamente quando la politica agisce per interessi personali e quando i magistrati divagano per fini che non sono quelli istituzionali della più giusta e celere ricerca della verità.


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