Il diavolo veste Shein. Sotto il vestito, l’ennesimo terreno dello scontro tra il gigantismo virtuale web e la fisicità del piccolo negozio tradizionale, del dumping tra la produzione gravata dai costi ambientali e quella che non ha dazi da pagare, della sfida economica (e non solo) tra l’Occidente e la Cina. Si chiama fast-fashion, è la “moda” del momento. Propone abiti per tutti a prezzi stracciati e lo fa sfruttando la potenza del web, digital first. L’interprete principale di questa tendenza viene da Nanchino, città simbolo della nuova Cina, e il suo nome è sulla bocca (e negli smartphone) di tutti: Shein. Non è l’unica piattaforma di fast-fashion, però. A tentare di insidiarne il primato, sempre dall’Asia, è arrivata Temu che promette di far concorrenza all’app che, per prima, ha sfondato il muro della moda low cost. Il modello di business è sempre quello. Lo stesso che, nei decenni scorsi, ha consentito alla Cina di imporsi, su scala globale, come un top player economico. Privilegiare la quantità rispetto alla qualità, contenendo così i costi (anche o forse soprattutto quelli legati alla remunerazione del lavoro) e proponendo tanti prodotti a prezzi più che concorrenziali. Chi frequenta l’app lo sa benissimo: non è infrequente trovare un abito da sera a poche decine di euro. Tanto, una volta messo, poi si può scordare in armadio. Senza sensi di colpa se dovesse rovinarsi.
Shein è la piattaforma più famosa e compulsata. Garantisce abiti a poco prezzo e consegne a domicilio. Sulla sua storia, ci sono diverse versioni e racconti differenti. Quella accreditata dall’azienda è la classica storia di self-made-nerd che in America avrebbe ispirato qualche film a Hollywood. Tutto ruota attorno alla figura di Chris Wu che ne è il proprietario. E che da appassionato di informatica s’inventa, grazie alla collaborazione di alcuni soci e collaboratori, un sito specializzato inizialmente nella vendita di abiti di sposa. Il business, pian piano, si allarga. Sempre fedele al digital first. E nel 2011 nasce She-inside, poi abbreviato in Shein, perché, nel frattempo. Wu e soci si sono accorti che la moda non è solo una questione per donne. Passano gli anni e Shein riesce ad imporsi in Occidente accreditandosi grazie agli accordi siglati con autentiche star. Su tutte, c’è la cantante Usa Katy Perry che firma una linea personalizzata con l’azienda cinese. Era il 2020. Il successo della piattaforma, però, non si deve solo a prezzi bassi e partnership azzeccate. Shein, infatti, produce i vestiti da sé eliminando tutta la catena di intermediari. In pratica, offre abiti a prezzo di fabbrica che all’azienda costano molto meno. E, inoltre, fidelizza i clienti con una strategia di “diamanti” e coupon che garantiscono sconti e offerte dedicate. L’uovo di Colombo.
L’offensiva del fast fashion, però, ha avuto una conseguenza. Anzi, la solita. Ha iniziato a comprimere gli affari delle case di moda. Che, impossibilitate a competere sul piano dei prezzi al pubblico, rischiano grosso. Considerando il peso, in termini di investimento, che il mondo del fashion ha su quello dello spettacolo e della comunicazione, non poteva che innescarsi una polemica divenuta, poi, una vera e propria crociata. Così lo scontro economico, come al solito, si apparecchia da battaglia ideologica. Le inchieste giornalistiche e il battage social denunciano che i lavoratori di Shein hanno ben pochi diritti. Che la qualità degli abiti proposti in vendita è infima e che i materiali utilizzati potrebbero essere anche pericolosi. C’è, poi, il tema caldissimo dell’inquinamento: la fast fashion, con produzioni altissime per vestiti al limite dell’usa e getta, produrre tanti, troppi rifiuti, sversati alla bell’e meglio in giro per il pianeta. Infine, c’è il tema dei presunti copyright violati. I produttori cinesi, si legge un po’ ovunque in rete, avrebbero copiato apertamente design e modelli senza autorizzazioni e senza pagare royalties a nessuno. È il vecchio tema ricorrente dello scontro economico tra Occidente e Cina: da un lato, chi deve fare i conti con legislazioni e tassazioni che altrove, semplicemente, o non esistono o verrebbero disapplicate.
Dall’altra parte, però, le repliche arrivano puntute. C’è chi invita a guardare, prima che a Shein, (che intanto se ha perso gli influencer più seguiti ha comunque guadagnato alla sua causa quelli che hanno un pubblico più ridotto ma più pop) alle condizioni dei lavoratori, per esempio, di Amazon. Ma c’è chi ricorda ai brand occidentali che, in fondo, anche loro hanno qualcosa da farsi perdonare in materia di sfruttamento del lavoro in giro per il mondo. Ma chi rimane col cerino in mano è il mondo del commercio, dei negozi di prossimità schiacciati dalla concorrenza digitale a basso prezzo e da quella esclusiva d’alta gamma. Insomma, è la riedizione fashionista dello scontro (geopolitico) tra l’Occidente e la Cina. Lo stesso che si registra, restando sul web, sulle piattaforme digitali, sui social (Meta vs Tiktok combattuta a colpi di decreti e ban nazionali), sui chip, sulle materie prime e sulle tecnologie hitech. Il diavolo veste Shein.