Attualità

Israele e Palestina: quel tragico intreccio tra i torti e le ragioni

di Redazione -


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

Come e più della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, anche il drammatico scontro militare in corso tra Israele e Hamas sta dividendo l’opinione pubblica in schieramenti contrapposti, ciascuno dei quali impegnato ad attribuire all’altro una patente di insensibilità morale e a distribuire i torti e le ragioni in modo unilaterale. L’orribile massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre ha provocato l’inevitabile reazione militare di Israele e ciò ha contribuito a fare in modo che, agli occhi di molti, l’aggredito si trasformasse in aggressore e la vittima in carnefice. Si è così creata una situazione in cui sofferenze e aggressioni, rivendicazioni legittime e prepotenze ingiustificabili finiscono per sommarsi o per annullarsi a vicenda. Eppure, mai come in questo caso sarebbe opportuno evitare la trappola delle semplificazioni, delle polarizzazioni e dei pregiudizi.


Sarebbe assolutamente sbagliato ‘contestualizzare’ (per non parlare di giustificare) l’azione terroristica compiuta da un gruppo che propugna il genocidio degli ebrei per riparare all’ingiustizia e all’oppressione sofferte dai palestinesi in 75 anni di conflitto. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non ricordare le politiche portate avanti da Netanyahu negli ultimi anni, che hanno sistematicamente ostacolato ogni realistica prospettiva di pace favorendo l’occupazione israeliana della Cisgiordania e trattando i palestinesi dotati di cittadinanza israeliana in modo discriminatorio, al punto da trasformare la democrazia israeliana in un regime segregazionista (o “dell’apartheid”, per citare l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter). Come le atrocità di Hamas non rendono ingiustificata la critica all’occupazione dei territori palestinesi e al radicalismo dei coloni, allo stesso modo l’impostazione militarizzata della politica regionale di Tel Aviv non rende le azioni perpetrate dai terroristi meno ripugnanti. Se qualcuno, in questa situazione, si ponesse nella prospettiva delle compensazioni reciproche avrebbe già perso la propria bussola morale. “Nessuno è innocente nella guerra in Medio Oriente”, ha osservato recentemente un altro ex presidente americano, Barack Obama.
Certo, si tratta di una esigenza morale che suona a dir poco irrealistica se rivolta ad Hamas, un’organizzazione che, ispirata originariamente a un islamismo di base legato al ‘welfare’, si è trasformata nel corso dei decenni in una setta fondamentalista i cui combattenti, non più frenati da alcun impulso umanitario, non esitano di fronte a qualunque efferatezza. E però, nonostante la democrazia di Israele sia diventata disfunzionale a causa della deriva autoritaria e antiliberale promossa da Netanyahu, che, per mantenere il potere, alla fine dell’anno scorso ha formato una coalizione con fascisti dichiarati e la cui politica è opposta ma complementare a quella di Hamas, e cioè impedire la nascita di uno Stato palestinese, è proprio a Israele che occorre chiedere una risposta proporzionata e conforme al diritto internazionale. Il rischio, altrimenti, è quello di innescare una spirale infinita di azioni e reazioni che si alimentano a vicenda e che stroncano sul nascere ogni speranza di pace.


Hamas vive e prospera anche grazie alla radicalizzazione, e in questo senso Netanyahu ha offerto al terrorismo jihadista propugnato dall’organizzazione una occasione d’oro per accreditarsi come un movimento di resistenza che resiste a un’occupazione. È ovvio che le cose non stanno così: perché, se è vero che anche le cause più ignobili possono esibire i loro resistenti e i loro martiri, è altrettanto vero che un modo d’agire che si concentra sui civili inermi invece che su obiettivi militari non può che essere qualificato come terroristico. Inoltre, la complementarità di cui si diceva tra Hamas e il Likud nazionalista di Netanyahu impedisce ai partiti più moderati – l’ANP o le forze democratiche presenti nella società israeliana – di poter interloquire. Sono anche i fanatismi, gli estremismi, gli integralismi a essere responsabili di questi massacri. È la mancanza di uno sguardo illuminista e illuminato a nutrire l’intolleranza e a fomentare l’incapacità di superare le radicalizzazioni. Uno sguardo, soprattutto, capace di guardare al dopo. È difficile, se non impossibile, che Israele possa vincere e, soprattutto, assicurarsi una pace stabile nel prossimo futuro, senza proporre un piano realistico per la fine del conflitto. È inevitabile che, una volta che l’offensiva si sarà conclusa, si riaprano in Israele le porte del dialogo e riprenda il processo di pace con i palestinesi. Non si tratta necessariamente di un sogno ad occhi aperti, dal momento che ebrei e palestinesi vivono da 75 anni all’interno dello stesso Stato e, soprattutto, non ogni palestinese è Hamas. Il rischio, altrimenti, è che Hamas conservi il proprio primato in campo palestinese e conquisti l’appoggio del mondo arabo alla propria causa e faccia esplodere quella polveriera che il Medio Oriente continua a essere ormai da decenni.


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