Da qui al 2030 mancheranno 100mila lavoratori all’anno
Mismatch e denatalità: così l’Italia si spalanca il buco dei lavoratori, le imprese rischiano grosso
La cabala andrebbe aggiornata. Non è questione di tempi, né di mode né di giochi. No. È un fatto di analisi, di statistiche. E, soprattutto, di lavoro. Altro che diciassette, il numero disgraziato dell’economia italiana è il centomila. Tanti, infatti, saranno i lavoratori che, ogni anno, mancheranno al nostro Paese, da adesso fino al 2030. Adesso che i boomer scalpitano per la pensione, nonostante il fatto che in manovra, nonostante l’ok a Quota 103, siano passate condizioni “peggiorative” che puntano a scoraggiare i lavoratori più anziani dal tirare i remi in barca per dedicarsi alle passeggiate ai giardinetti, occorrerà trovare (almeno) 500mila nuovi lavoratori all’anno. E per un’Italia che non fa figli e che è sostanzialmente disamorata, la sfida si fa difficile.
Uno studio di Prometeia inchioda l’Italia all’ennesimo deficit. Questa volta, però, non si tratta di bilancio, di soldi. Si tratta di un buco nero di lavoratori, persone, dipendenti, unità attive che non saranno più rimpiazzate. Stando alle rilevazioni degli analisti, infatti, è una questione demografica. I più giovani non sono, numericamente, neanche paragonabili ai più vecchi. Pertanto, secondo le proiezioni, se ogni anno 500mila persone lasceranno il loro lavoro, significa che non si riusciranno a trovare più di 400mila sostituti ogni anno. E questo accadrebbe a patto che l’economia italiana e le imprese di questo Paese raggiungessero tassi di attività che siano, almeno, coerenti con gli standard europei più alti. In pratica, se tutto va bene, ci ritroveremo con 100mila lavoratori in meno ogni anno. Ma dal momento che l’Italia è un Paese in cui vige la legge di Murphy, e pertanto se una cosa può andar male state pur certi che così sarà, il buco della forza lavoro rischia di trasformarsi in una voragine paragonabile a quella del debito pubblico.
Questa situazione non sarebbe per niente funzionale. Nemmeno a riequilibrare un mercato del lavoro troppo sbilanciato su paghe da fame e precarietà a ogni costo. Semplicemente, le imprese non troverebbero più lavoratori abbastanza qualificati o almeno disposti a impiegarsi. O, per ragioni prettamente numeriche, non ne troverebbero abbastanza. Pertanto, all’orizzonte, si affastellano nubi minacciose per la tenuta stessa del sistema economico nazionale.
Il guaio, come il diavolo del proverbio, si nasconde nei dettagli. L’Italia è un Paese che deve fare i conti con un’alta disoccupazione, quasi endemica. Eppure, gli attuali due milioni di disoccupati non sarebbero in grado di assorbire il buco lasciato da chi andrà in pensione. Già, perché servono dipendenti e figure formate, qualificate e con un certo grado di formazione. Non ci si improvvisa. Pertanto, una delle linee su cui investire dovrebbe essere quella della formazione permanente. Una “vecchia conoscenza” del dibattito politico italiano. Se n’è parlato così tanto, ai tempi dell’istituzione prima e della cancellazione poi del reddito di cittadinanza. Senza cavarne un ragno dal buco. Che ogni giorno si fa sempre più nero, spaventoso. Aggravato dall’altro spauracchio che infesta il mercato del lavoro nazionale: quello del mismatch, dello squilibrio, drammatico, tra la domanda di lavoro e l’offerta, le competenze, di chi lo cerca.
Il problema, quindi, è di quelli epocali. Da un lato mancano le persone, dall’altro le competenze, appunto. Un buco di lavoratori, complicato dalla discrepanza tra la richiesta delle aziende e le competenze.
Come fa notare lo stesso studio di Prometeia, la posizione dei Neet italiani rappresenta una sorta di unicum su scala europea. Altro che fannulloni, bamboccioni più affezionati al divano di mammà che all’idea di costruirsi una vita propria. Si tratta, per lo più, di giovani che hanno completato il loro percorso di studi e che non trovano lavoro. Non guadagnano esperienza lavorativa, che sul mercato è un valore assoluto, e intanto si deprimono, stanchi e stufi di continuare a studiare, non seguono percorsi di ulteriore formazione. Insomma, una polveriera.
Centomila all’anno, da qui al 2030, sono tanti di più. Si sfiora il milione di lavoratori in meno. E per l’Italia il rischio è quello di dover intraprendere il triste cammino del ridimensionamento.
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