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La resa dei conti

di Redazione -


La resa dei conti

di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

La resa dei conti. La strage perpetrata il 7 ottobre dal gruppo terroristico di Hamas ai danni di civili israeliani inermi va inquadrata prima di tutto nel contesto locale. In particolare, nella volontà dichiarata di Hamas non solo di reagire all’occupazione dei territori palestinesi, ma anche, e soprattutto, di combattere l’odiato “oppressore sionista” sino al suo annientamento. Ed è per questo che Israele ha tutto il diritto e il dovere di difendersi, in modo coerente con le regole che questo stesso popolo si è democraticamente dato.

Per quanto però le radici della carneficina compiuta dai membri di una organizzazione che proclama fin nel suo statuto il jihad contro Israele siano riconducibili a quanto accade ed è accaduto su quei territori ormai da decenni, una lettura capace di evitare il triste spettacolo dello scontro tra tifoserie contrapposte dovrebbe osservare gli eventi da una prospettiva globale. Le azioni e l’inazione di altri protagonisti – vicini e lontani – sono fondamentali.

E lo è altrettanto il contesto di un mondo in cui molti Paesi cercano di modificare le regole dell’ordine globale dando vita a nuove alleanze, anche in nome di quel multilateralismo conflittuale che sta soppiantando l’ordine globale egemonizzato dagli Stati Uniti. Tra i molti fattori esterni che incidono sul corso degli eventi, ce ne sono alcuni di particolare rilievo. Il primo, diretto, è rappresentato dal sostegno che l’Iran fornisce ad Hamas. Resta da chiarire se Teheran – un Paese allineato alla Russia e alla Cina – abbia svolto un ruolo nella pianificazione degli attacchi, ma ovviamente il suo supporto materiale è fondamentale.

Il secondo, a un livello diverso, è rappresentato dalla scarsa attenzione prestata dalle cancellerie occidentali alla questione palestinese, la poca o nessuna pressione sui governi di Netanyahu per spingerlo a rinunciare alle politiche di occupazione e a negoziare con i palestinesi. Il fatto che la situazione di Gaza sia stata lasciata incancrenire ha certo fatto da propellente all’atroce violenza terroristica. Inoltre, non c’è dubbio che gli obiettivi dell’attacco di Hamas si collochino su una scala globale. Non solo per richiamare l’attenzione su una situazione di oppressione che si prolunga da tempo e che colpisce una popolazione che non vede davanti a sé alcuna via d’uscita. Ma anche per mettere i bastoni tra le ruote di un processo diplomatico che mirava a normalizzare le relazioni tra Israele e i paesi arabi, un processo sponsorizzato prima dall’amministrazione Trump (con gli Emirati Arabi Uniti e il Marocco) e poi dall’amministrazione Biden (con l’Arabia Saudita).

Ed è questa, probabilmente, la ragione che spiega perché Hamas abbia colpito proprio ora. Rispetto a questa situazione, il mondo sembra diviso in tre blocchi. Uno guidato dall’Occidente e dall’India – il cui primo ministro promuove una politica ispirata al nazionalismo indù volta a emarginare i musulmani – e schierato in netta difesa di Israele. Un altro, che comprende Cina, Russia e gran parte dei paesi del Sud globale, che si limita a chiedere la cessazione delle ostilità e denuncia l’ipocrisia dell’Occidente per la sua acquiescenza di fronte all’occupazione israeliana. Di questo blocco fanno parte i governi di alcuni paesi musulmani che non possono fare a meno di tener conto di un sentimento popolare decisamente favorevole ai palestinesi. E c’è infine poi un terzo blocco, guidato dall’Iran, che considera l’“entità sionista” un nemico esistenziale, e perciò da annientare.

È probabile che queste differenze contribuiranno ad alimentare l’instabilità di un ordine mondiale che vede l’egemonia statunitense in fase di contrazione. La spirale di violenza scatenata da Hamas sferra anche un duro colpo a coloro che stavano cercando di riportare su binari meno conflittuali le relazioni tra l’Occidente e l’Iran in modo da garantire un rinnovato controllo internazionale sul suo programma nucleare. E, naturalmente, distrarrà parzialmente gli Stati Uniti dalle loro priorità strategiche. Non solo: incoraggerà coloro che rimproverano l’Occidente di applicare a Israele un metro di giudizio diverso da quello che adotta in altre situazioni nel resto del mondo.

Quanto sta accadendo in Israele e in Palestina si inserisce in un contesto globale segnato anche da altre crisi: la guerra della Russia all’Ucraina, la possibile accelerazione della tensione tra Cina e Stati Uniti nel teatro dell’Indopacifico, e ciò mentre gli americani sono impegnati a sostenere un conflitto indiretto nel quadrante dell’Atlantico con la Russia. Di qui il paradosso, per cui un’area apparentemente marginale rischia di diventare lo scenario di un confronto che rischia di dilagare a macchia d’olio.


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