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Ritorna l’allarme nelle moschee: così lo Stato controlla gli Imam

di Rita Cavallaro -

Friday Prayers at the Hassan II Mosque. / LUZ Creation Date:


ISLAMISTI D’ITALIA – Ritorna l’allarme nelle moschee: Così lo Stato controlla gli Imam

La chiamata dell’Isis alla Guerra Santa contro l’Occidente infedele eleva a massima l’allerta terrorismo in Italia. E sotto la lente dei servizi d’intelligence finisce tutto il mondo arabo, perché tra i musulmani integrati nel nostro Paese possono nascondersi quei lupi solitari pronti a uccidere e a morire al grido di Allah Akbar. Saldi a seminare la paura di una minaccia invisibile, che può colpire chiunque in qualsiasi momento, e che genera tra gli italiani un’islamofobia sempre più crescente. Un sentimento di intolleranza che non va a colpire coloro che davvero vogliono colpirci, ovvero le cellule dormienti che fanno proseliti nel deep web o i jihadisti che stanno rispondendo all’appello al terrorismo di Hamas. A subire le conseguenze del clima d’odio sono quei quasi 2,7 milioni di musulmani, tra italiani e stranieri, che rappresentano il 4,9 per cento della popolazione residente nel Belpaese. Coloro i quali si riuniscono per la preghiera del venerdì nelle moschee. Sono otto quelle riconosciute ufficialmente in Italia dalle amministrazioni regionali e dalle autorità religiose islamiche, tra cui la Grande moschea di Roma e quella di Milano.

A queste si aggiungono oltre 1.200 luoghi di culto, sale di preghiera organizzate in capannoni, garage, seminterrati, appartamenti e che, in buona parte dei casi, sono ritenute abusive nonostante vengano tollerate. Le questure d’Italia le conoscono bene e le hanno mappate tutte negli ultimi anni, catalogandole su una scala del rischio di radicalizzazione terroristica suddivisa in tre gradi: nessun rischio, mediamente a rischio e rischio maggiore. Tanto che il vicepremier Matteo Salvini, parlando dell’infiltrazione di attentatori jihadisti tra i migranti, ha aggiunto che “è giusto fermare qualsiasi nuovo permesso di costruzione di moschee e centri culturali camuffati, capire chi finanzia questi luoghi e chi conduce le preghiere. Ora controlli a tappeto”. Le attività di monitoraggio sulle moschee, negli ultimi anni, sono già state intensificate e solo nella città di Roma, su 32 luoghi di preghiera, almeno la metà vengono costantemente tenute sotto osservazione, perché considerate a medio e alto rischio. È in alcune di queste che inizia il nostro viaggio nelle moschee italiane. Dal minareto della Grande Moschea di Roma, il più esteso luogo di culto della popolazione musulmana del Paese considerata un modello di integrazione, al seminterrato della Al-Huda a Centocelle, la seconda moschea romana reputata dall’intelligence a rischio infiltrazioni degli integralisti islamici, fino alla sala di preghiera di Ostia, il cui imam era finito nella bufera dopo un servizio de Le Iene in cui non condannava moralmente gli attentati. È per arginare la propaganda jihadista che, ormai da tempo, sono state attivate procedure più stringenti, che vanno al di là dei normali strumenti di indagine, ma che puntano a prevenire un percorso di radicalizzazione fino a qualche anno fa fuori controllo.

Al monitoraggio di routine sui soggetti considerati più a rischio, agli approfondimenti sull’operato dei direttori delle sale islamiche e alle intercettazioni telefoniche e ambientali nell’ambito delle inchieste si aggiunge un lavoro a monte, che consiste nella revisione dei testi religiosi. “Il giovedì l’imam è obbligato a mandare alla polizia la predica che leggerà durante la preghiera del venerdì”, spiega un fedele, “quel testo viene approvato dal funzionario e viene dato l’ok all’imam per la preghiera”. Ma non è tutto. “La funzione del venerdì viene inoltre registrata dagli inquirenti, che controllano che non sia stato modificato nulla rispetto al testo approvato”, precisa il musulmano, “perché anche una parola in arabo diversa da quella prestabilita può causare seri problemi”. Conseguenze amministrative, che potrebbero comportare anche la chiusura del luogo di culto, o vere e proprie indagini antiterrorismo. Tensioni che, in questo momento, potrebbero ancor più avvelenare i pozzi. Tanto che ormai, con lo scoppio del conflitto israelo-palestinese, i musulmani integrati che vanno alla preghiera del venerdì evitano di fermarsi a parlare dopo la funzione, per il timore che una parola di troppo possa essere equivocata. “Qui siamo tutti d’accordo”, spiega un altro fedele egiziano, “entriamo in sala in silenzio e professiamo la nostra religione, ma la politica resta fuori dalla moschea. Chi vuole chiacchierare o commentare i fatti lo faccia a casa sua o al bar, perché noi stiamo già pagando le conseguenze di quello che è un gioco pericoloso tra Usa e Iran. Noi non siamo Isis o Hamas”. Una linea comune, rivendicata da tunisini, egiziani, maghrebini e marocchini che, ormai da decenni, vivono e lavorano in Italia. Per i quali i rischi maggiori, oggi, non vengono dalle moschee, ma dal deep web dove i jihadisti starebbero facendo proseliti soprattutto tra le seconde generazioni, i figli di quegli extracomunitari che sono italiani a tutti gli effetti ma che non si sarebbero integrati. E la loro condizione di marginalità potrebbe spingerli a scatenare l’odio verso l’Occidente. “Sono ragazzini, bulletti che invocano alla jihad su TikTok”, dice un altro musulmano, “ma non sanno quello che dicono. La jihad del Corano non predica il massacro di innocenti, ma di seguire il percorso spirituale sulla via di Allah”.


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